E così, in una fredda serata invernale resa difficile dall’allerta neve, siamo a Cascine di Buti, invitati a cena e/di racconti dal Teatro delle Ariette; nuovo appuntamento della bella programmazione butese gestita dall’amico e regista Dario Marconcini.
Il lavoro proposto affronta il tema autobiografico: un giovane diciassettenne, Stefano Pasquini, lascia Bologna per la Normandia, ospite della famiglia della ragazza di cui è innamorato e con cui scopre il sesso, la politica, il couscous e, soprattutto, Lo straniero di Albert Camus, regalatogli in originale. Attraversa il romanzo alla ricerca di coincidenze, di emozioni, di rappresentazioni letterarie ed esistenziali che si arrestano crudelmente al capitolo sei, quando il protagonista si rende colpevole di un assurdo delitto.
Siamo in una festa di paese: tavolini per gli spettatori, due tende rosse dirimpetto rievocano lo spazio teatrale; al centro, la scena del dramma, quella del capitolo con l’uccisione dell’arabo.
Lo spazio è lateralmente occupato dalla cucina dove si preparano pentoloni di couscous; il cuoco-attore si relaziona agli spettatori domandando: «Secondo voi quanti anni ho?». È la prima condivisione, ma ce ne saranno altre: taglieremo le verdure per il brodo con le sue indicazioni, ma, al contempo, sentendoci già liberi, entrati nel magico gioco del teatro.
«Faccio teatro — ci confessa — perché amo raccontare storie, giocare, fare progetti; perché amo la cucina, luogo magico come il teatro». Si mescolano così ricordi d’infanzia, la figura della nonna, il gioco del coniglio. Profumi, sapori, odori: intanto, noi sgranocchiamo mandorle e taralli, brindando, con vino rosso, alla salute del teatro.
Francia, estate 1978. Viaggiando dalla Spagna sino all’Algeria, conosciamo la famiglia di Maria, il padre anarchico; scopriamo l’amore, ed entrano le pagine del romanzo, affidate alla voce di Paola Berselli, dalla morte della madre sino all’invaghimento di Mersault (protagonista camusiano) per una donna: è di grande impatto espressivo la scena in cui una tinozza d’acqua diventa lago, con la protagonista a immergersi e nuotare.
Albert-Mersault-Stefano mescolano le narrazioni: come dal pentolone, ne fuoriescono l’insieme di odori e aromi speziati. Sono tre stranieri. Siamo tutti stranieri. Nella nostra condizione umana: qui, bene e male, bello e brutto sono categorie inerti; resta il vivere, il quotidiano, e il tempo non esiste, non passa; siamo noi a passare.
Scorrono le pagine del testo, presenti, fisicamente pesanti, condotte sulla schiena, evocate più che recitate. La giustizia diviene condanna a morte prevista, contro la quale non si può e non si vuole fare niente: le urla di odio fanno buona compagnia in questa assoluta solitudine.
Stefano ci rassicura: tornerà, dopo aver deciso di non tornare più, torna agli esami di maturità, da futuro ragioniere discuterà di Camus, inascoltato straniero ancora una volta. Alla ricerca di altre fortuite coincidenze: sono certo di essere stato concepito in quel gennaio del 1960 mentre Albert Camus moriva in un incidente d’auto.
Accanto a lui Paola Berselli, sua moglie, donna minuta che passerebbe inosservata se non l’avessimo vista abitare la scena, vestita di rosso con bionda parrucca, imponendo gioia e sensualità. Ora mangiamo, tutti insieme: ottime e abbondanti ciotole di couscouss, bollenti e speziate, e ancora un brindisi per augurare lunga vita al teatro di Buti.
Spettacolo da non perdere, come ha dimostrato un pubblico gioioso, accogliente, a lungo soffermatosi a parlare di come, in una festa bella e inattesa, ci si possa sentire più umani e meno stranieri.