La scenografia essenziale è composta da taniche, contenitori d’acqua, barili e assi di legno; tutti questi oggetti sono dipinti di bianco sporco a richiamare la neve e il ghiaccio. Tutto è in penombra quando l’attore attraversa il palco per raggiungerne il centro; è vestito da Charlot (indosserà anche altre vesti), riferimento alla chapliniana “Febbre dell’oro” che molto ha a che fare con la vita e le opere di London. All’ingresso in scena, Marco Paolini è accolto da un applauso, al che lui fa segno di no col dito e puntualizza: «Io non sono io, io sono il personaggio». Potrebbe sembrare una precisazione non necessaria, ma, quando si parla di teatro di narrazione e in particolare dell’opera dell’artista trevigiano, il rischio di confondere attore e personaggio è concreto. Negli spettacoli che l’hanno reso noto, Paolini quasi sempre si esprime in prima persona, senza avere un personaggio: attore e carattere, in qualche modo, coincidono. Che si tratti del racconto del Vajont, di Ustica, dei diari e degli album, il pubblico “vede” Paolini, che certo è un attore, ma, prima di tutto, è Paolini. In Ballata di uomini e cani [già recensito in LSDA un anno fa], invece, l’artista interpreta Jack London, narrando in prima persona le avventure dei tre racconti che compongono la pièce, per rivelare infine che (all’interno delle tre storie) lui è sempre stato… il cane.
I racconti (Macchia, Bastardo e Preparare un fuoco) hanno come fuoco il rapporto tra uomo e cane a confronto con la brutale forza della natura. L’attore non si limita a operare una riduzione drammatica dei testi, ma trasforma la prosa dello scrittore statunitense attraverso la ricerca di un ritmo orale; a tale scopo utilizza la tecnica con cui ha composto la gran parte dei precedenti spettacoli. La prosa si trasforma così in racconto attorno al fuoco, esperienza personale che si fa collettiva mentre la voce diviene il veicolo primario di comunicazione.
Sul palco, una piccola orchestrina (Monguzzi, Baselli, Casadei) entrata dalla quinta opposta rispetto a quella da cui era comparso poco prima l’attore. Le canzoni e le musiche (composte in parte dallo stesso Monguzzi) innervano e sostengono lo spettacolo, come spesso nei lavori del raccont-attore, contribuendo a creare l’atmosfera da “corsa all’oro” che caratterizza l’insieme. Vengono proiettate immagini e (brechtianamente) i titoli dei racconti, a separare i momenti dello spettacolo.
In chiusura, Paolini torna a essere Paolini: accenna alla storia di un clandestino che ha perso la vita durante la propria “corsa all’oro dell’Occidente”, instaurando un parallelo molto chiaro tra gli uomini duri, avventurosi e astuti delle epopee londoniane e le vicende attuali dei migranti; come gli USA sono stati fondati e creati da questi avventurieri, così la nuova Europa sarà forgiata dalle forze fresche provenienti dalle aree più povere e devastate del pianeta.
Lo spettacolo è costruito sapientemente, i pochi accorgimenti di illuminotecnica e le proiezioni contribuiscono a creare un clima di gelida tensione, che si affianca al freddo glaciale delle parole pronunciate; il ghiaccio tagliente diventa il vero protagonista, scaldato dal fuoco della narrazione, ancora una volta di matrice orale. Non scritta, ma detta. Non recitata, ma pronunciata, pacatamente, suonata e cantata. Unico neo ravvisabile: una certa frammentarietà, dovuta alla giustapposizione di tre racconti differenti anche se tematicamente affini.
Raccontando una storia lontana, nel tempo e nello spazio, Paolini ci mette a contatto con il mito fondativo dell’America, ma, al contempo, racconta qualcosa dell’uomo tout-court, la sua meschinità e il suo coraggio, la sua gioia di vivere e il suo desolante destino di morte.