A volte accade. Si ha la sensazione di trovarsi di fronte o, meglio, calati in un’epifania dalla nitidezza urgente e necessaria del dolore. Talvolta si riesce a essere condotti attraverso uno stato di lucida alterazione dei sensi − senza il ricorso a surrogati psicotropi − in una realtà a portata di mano eppur latente, testimoni di un bìos rivelato e liberato sciamanicamente con il solo ausilio del potere evocativo di una voce. Quando questo accade, il corpo dello sciamano perde consistenza, rilevanza: bastano le sue parole a costruire la realtà. E si comprende appieno l’etimo greco del termine poesia.
Maria Paiato è (perché dire interpreta parrebbe riduttivo) Auxilio Lacouture, personaggio donatoci dalla Storia e consegnatoci nel 1999 dalla penna di Roberto Bolaño, scrittore cileno tra i maggiori del secondo Novecento.
Auxilio: nomen omen − nel significato di protezione − a segnare il destino di una donna che, a suo modo, riuscì a resistere all’irruzione dell’esercito nel campus dell’Università dell’Autonomia di Città del Messico nel settembre del ’68. Testimone di un’ecatombe, il massacro degli studenti che si opposero alla repressione, rimase nascosta nei bagni della Facoltà di Lettere e Filosofia per dodici giorni, armata solo della sua tenacia e difesa da un libro di poesie di Pedro Garfias.
La vediamo avanzare dal fondo di una scena completamente vuota. È già significato: procede con passo di vecchia dimessa, incede dal fondo della Storia per darle voce, declinandola al minuscolo della propria vicenda personale. In mano regge, per poi deporlo sulle tavole del proscenio accanto a sé, un bicchiere pieno d’acqua in cui è immerso un fiore rosso: resterà ai piedi dell’attrice per tutta l’ora, o poco più, del monologo, piccola e magnifica sentinella di vita a difesa di un’altra altrettanto fragile e fiera.
È il simbolo della poesia, unico cibo di cui la giovane donna si nutrì per resistere all’assedio della Storia, per conservare il seme di un’umanità reietta e residuale, quella dei poeti latinoamericani di cui si dichiara madre.
Nel delirio in cui si getta insieme ai pochi che assistono in sala, i piani cronologici e spaziali saltano e si con-fondono, dando luogo a vertigini d’onnipotenza che si tuffano nelle crepe del fragile guscio d’uovo della mente di questa mitomane salvifica. Rabbia, tenerezza, pietà, determinazione, sgomento e speranza dolorante: tutto scaturisce dalla voce roca e penetrante della Paiato, ingabbiata in una camicetta color panna a fiorellini, mentre le sue braccia si librano come lingue di fuoco, svettando dalle spalle, coperte da un gilet acceso di un fucsia andino.
E narra la biografia di questa consorte del quotidiano di poeti e pittori di cui serviva l’esistenza, di cui conosceva l’intimità dei silenzi domestici e le detonazioni alcoliche durante i bagordi nei bar. S’incarica d’incarnare una nuova figura d’Erigone, superstite dell’olocausto di una generazione.
La sua è un’affabulazione psichedelica − risuonano anche le note di The Great Gig in the Sky, a un certo punto, sovraccaricando di eccedenze sonore la narrazione − che da sola sosterrebbe l’intera impalcatura diegetica dello spettacolo, frantumato, spesso nei momenti più fulgidi e convincenti, da inserti sonori e luministici descrittivi negli intenti e fastidiosi nei risultati.
Resta salva la credibilità del personaggio, la sua insania messianica, il medicamento sciamanico con cui restituisce alla vita i pochi a cui ha fatto dono del suo Amuleto.