Si cita il Machiavelli relegato all’Albergaccio e, più che alla teoria politica, pensiamo alla lingua materica con cui il Secretario dissertava d’osterie, di regnanti, di saputi intrecci licenziosi. Son cinquecento anni dal ritiro del nostro in villa, dandogli agio di vergar l’opuscolo che cambierà il pensiero politico d’Occidente: il De principatibus. Temuto, posto all’indice, vilipeso, il libercolo elesse il suo autore tra i più importanti e fraintesi pensatori al mondo, attribuendogli il principio apocrifo per cui il fine giustifica i mezzi. Trarre teatro da quel che definiremmo un saggio è sfida insidiosa e meritevole: vi s’apparecchia Arca Azzurra, stavolta non sotto la consueta guida di Ugo Chiti, bensì del drammaturgo e regista Stefano Massini. Operazione che sarebbe piaciuta a Curzio Malaparte, tutta fra toscani: fiorentini Machiavelli e Massini, chiantigiani gli attori.
Sipario aperto, non su drappi e arazzi rinascimentali né sulle consunte tavole della taverna ove ser Niccolò soleva indugiar con locandiere e macellaio: la luce diafana investe bacili, tini e sacchi d’una cucina senza tempo presto riempita da un’improbabile brigata accorsa dalla platea. S’ha da cuocere un Principe all’Italia, da troppo priva d’una guida acconcia. In cinque danno vita alla loquace scherma su come spadellar tal pietanza: con speziature, nerbi di frittura, piccanterie o con la morvidezza zuccherina che ben voler faccia il condottiero al popolo? Massimo Salvianti, barbuto e tronante, domina la scena con imperio e veemenza da chef; ben gli replica la mercuriale e ossuta secchezza di Lucia Socci. Food politics in salsa tosca: metafora ostentata, pure arguta, sfarinata nel dedalo d’istanze che i cucinieri perorano. Materna, ragionevole Giuliana Colzi, argentino e appassionato Andrea Costagli, burbero oltremodo Dimitri Frosali, la cui cadenza ci pare, non da ora, tra le più belle nel panorama italiano tutto. È uno spartito do coralità vocali, concertazione di gesti a muover sacchi e farina; nei monologhi affiora, poi, il dettato originale.
Massini amalgama tutto in soffritto e stufatura: idioma, politica, gastronomia. Ci sovviene la gran Mandragola di Arca Azzurra, cui la penna di Chiti fornì pregevoli ricami. Col Principe, il gioco rischia l’inceppo: gustosa la chiave culinaria, ma alla lunga prevedibile. Altra necessità ci vorrebbe, un’urgenza paventata solo in chiusura: riempito il calderone a centro palco, la combriccola dismette cappelli e grembiali per spartirsi citazioni (Pasolini, Goethe, Montanelli, le attuali agenzie di rating), in un’invettiva che lamenta l’assenza d’un principe. A postilla di quanto appena scritto, non potremmo discordar di più: passi Machiavelli, un tempo letto con passione (più I Discorsi che Il principe), ma inquadrare la crisi attuale (di quello si ragiona) come questione di leadership ci par baggianata degna del peggior (ossia l’attuale) Partito Democratico. Renzismo ante litteram, o neanche troppo ante. Capi, capetti e caporioni, siano statisti o arzilli satiri a caccia di gonnelle, son sempre, per noi, conseguenza, non causa degli assetti che li esprimono. La questione da analizzare (o, perché no?, tradurre in scena), sta altrove: il Grande Capo è o può esser’ accidentale, sostituibile (si chieda a Lee Harvey Oswald); la struttura no, preesiste e determina. Qualcosa che ci riporta più a Marx (Karl, ma non disdegnamo Groucho) che all’amato ser Niccolò.