Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi), della compagnia Fortebraccio Teatro, che vede il proprio fondatore nonché direttore artistico e regista in Roberto Latini, è un viaggio nel sottile linguaggio ovidiano, applicato a forme dai contorni mutabili, incarnatosi in un intreccio di inquietudine e dolcezza.
L’elegia si fa azione scenica, sedimentandosi in forme che non avremmo pensato appartenerle, e che pure ci osservano con occhi vacui in volti dipinti, senza stupore, come se di elegiaco fosse sopravvissuta soltanto una patina leggera, che opacizza i colori, li allontana, ce li rende sopportabili.
Il pubblico è tanto vicino da poter sfiorare ogni parola, ma non può che percepire un distacco quasi reverenziale, manifestato da sguardi che, pur rivolti a esso, non lo incontrano mai, vesti multicolori, volti che il trucco ha resi anonimi o solcati di profonda, immutabile personalità.
Non si tratta di una rappresentazione unica: ad ogni stazione l’opera stessa muta forma, contenuto, collocazione spaziale. Pur mantenendo una struttura ben riconoscibile, a ogni narrazione un diverso episodio dà vita a maschere di clown ora innocenti ora raccapriccianti.
Apollo e Coronide, Orfeo e Euridice: miti di cui l’ovidiano gusto eziologico, la cura formale che si fa virtuosismo, vengono velati per mettere in luce il concetto stesso di metamorfosi, tipico del contemporaneo non meno dell’antico, dal fascino innegabile, irrazionale nel suo manifestarsi, irrinunciabile per il suo valore intrinseco. Se la metamorfosi (il mutamento della forma) è tipica della vita umana, è certamente ancor più caratteristica nel teatro, le cui forme sono variegate, impossibili da cristallizzare in definizioni statiche.
Il tessuto teatrale si dipana in cinque dei giorni del Festival Inequilibrio, dal 1 al 5 luglio, con un episodio ogni giorno.
Aria tiepida, cielo già scuro, alle 23.30 del 5 luglio assistiamo all’ultimo quadro delle Metamorfosi, conclusione del festival: si tratta di un’operazione sensibilmente differente da quella cui abbiamo assistito nei giorni precedenti. A quale metamorfosi stiamo assistendo? Brandelli di narrazione sostano nello spazio scenico, privi di un’intelaiatura razionale in cui inserirsi. I personaggi inquietanti che abbiamo imparato a riconoscere si accompagnano ad altri, vesti candide, volti pallidi. Quei fantasmi silenziosi si muovono in danze sinuose, vi è un’insanabile distacco tra l’azione scenica e la voce che narra, sparisce, parla ancora: se ne perdono le parole, nel circo dell’assurdo che imperversa sul palco, sempre con dolcezza, seppur folle.
Ovidio, con le sue descrizioni dense di dettagli eruditi, con la ricercatezza dei termini e la spasmodica attenzione al loro suono, si annienta in personaggi di sogno tra i quali si instaurano continui legami, e pare esservi dialogo, e vi è solitudine, e ancora si forma una relazione sottile, di sguardi e gesti leggeri, in una danza di cui lo spettatore non percepisce pienamente il significato, ma dal cui valore estetico è travolto, catturato.
Ed è il pubblico a muoversi infine nello spazio scenico, mentre i personaggi, uno ad uno, svaniscono, senza pretendere applausi.