La fame. E la fama. Diverso l’etimo, non dissimile la bramosia ingenerata, benché d’innegabile e imparagonabile urgenza. Questa, non volendo, la prima considerazione assistendo a Miseria e nobiltà, pregevole ordigno scenico offerto dalla riscrittura di Michele Sinisi e Francesco Asselta. Torna a Napoli, il teatrante terlizzese, a un altro classico, ché la commedia di Scarpetta è qualcosa di cui l’immaginario collettivo è intriso, Totò gratias. Napoli, il classico, il comico e un rovello costante che ci pare consista nell’indagine irrequieta sullo statuto del teatro, le sue possibilità d’approdo e fuga, i suoi limiti: questi i nuclei attorno ai quali s’avviluppa la poetica d’un regista/attore ormai riconosciuto nell’ambiente, ma che, forse e pure lecitamente, aspirerebbe a qualcosa in più.
Un ritorno: già con l’eduardiano L’arte della commedia (visto all’Eliseo, 2013), Sinisi aveva focalizzato la questione della teatralità quale punto cogente del proprio operare. Nella distanza dei generi, il collasso scenico del temerario Riccardo III (ne scrisse Titomanlio, Balestri chiosò) ci parve in relazione a quel De Filippo, benché l’impressione fu d’un lavoro troppo crudo, necessitante di rodaggio.
Tutt’altro passo, questa Miseria, davvero: l’intarsio drammaturgico, calato nell’oscuro nulla d’una scena sgombra, nell’ostentazione quasi pornografica di cavi, quinte e uscite, si dipana in una reiterata dialettica dentro/fuori, vicenda/citazione, storia/memoria pop.
Le anime spiantate, derelitte e mostruosamente affamate di un nucleo famigliare malmesso quanto composito (ah, ma la famiglia d’una volta!) vengono eclissate da viperini inserti stranianti: alla lettera di Totò e Peppino si sostituisce/sovrappone quella di Troisi e Benigni (sua esplicita citazione!), grazie alla mediazione efficace della coppia comica Ciro Masella–Gianni D’Addario, con la conseguenza di minare qualsiasi sparuta, residuale velleità mimetica.
“Siamo a teatro“. Sempre e comunque. Questo il monito che Sinisi sembra consegnare a una compagnia che l’accontenta appieno in materia di ritmo, tenuta, intensità. Sugli scudi, Stefano Braschi, guascone e inarrestabile, che assai si giova della declinazione bolognese, balanzoniana del cavalier Semmolone; il resto del cast, ottimamente assortito, non è da meno. Il plurilinguismo è solido asse portante di questa farsa della fame: pugliese, emiliano, napoletano, Babele d’accenti e contrappunti per una storia che, come d’obbligo, finirà col matrimonio e il trionfo del nuovo sul vecchio.
Centodieci minuti senza respiro né cedimenti, con Sinisi là, fuori scena ma non troppo, tra recita e rottura, demiurgica figura laterale (dà le luci, interviene) che ricorda certe raffinate soluzioni del Servillo eduardiano (pensiamo pure alla Trilogia o a Le false confidenze). La macchina teatrale è ottimamente oliata, ogni elemento risulta al proprio posto, eppure s’avverte un limite in questo lavoro sin troppo perfetto: tale tornitura rischia, per paradosso, di cristallizzare la festività intrinseca d’una pièce simile in una dimensione estetizzante, come per certe commedie recenti “impugnate” da registi di rango (pensiamo al raggelato Arlecchino di Latella, mancandoci Natale in casa Cupiello). Il tutto, a discapito del divertimento puro, del fou rire. Non è esattamente il caso di Sinisi, ma è pur vero che una farsa di formidabile scrittura come Miseria suscita, in questa fattispecie, meno risate di quanto dovuto (o sperato). E affiora il sospetto d’un lavoro, anzi un lavorìo, senza dubbio encomiabile, ma che rischia di consegnare uno spettacolo atto a compiacere più gli intenditori che un pubblico “reale”, come se la fame di fama prendesse il sopravvento.
Applausi comunque: di Sinisi, giustamente, parleremo (e sentiremo parlare) ancora, e ancora e ancora.