In poesia, c’è chi ha compiuto una differenziazione tra testi difficili e oscuri, considerando i primi decodificabili anche se con fatica, i secondi di per sé non decodificabili, resistenti a qualsiasi forma di parafrasi, e tuttavia, nonostante non li si possa spiegare, questi possono risultare comprensibili, magari a livello non completamente razionale.
Venendo quindi all’allestimento firmato da Simona Generali, dichiaratamente ispirato a un testo complesso e quasi delirante come Ulisse di Joyce, è innegabile come questo sia caratterizzato da una certa oscurità, che rende difficile parlarne in modo compiuto senza ripiegare, almeno in prima istanza, nella descrizione di scene, movimenti e parole, per poi cercare di rintracciarne significati più reconditi.
Sul palco, dominano i colori scuri: le luci tagliano misuratamente la scena, creando finestre apparentemente luminose e dotate di senso, che, però, si perdono in una narrazione che sembra chiudersi, più o meno coscientemente, alla comprensione.
Generali, interprete principale nonché regista del lavoro, è affiancata da Lara Panicucci, musicista e, per l’occasione, attrice. Lunghi lisci capelli corvini, sottoveste di seta nera: le due possono sembrare la stessa persona, «due facce di una stessa donna, o una faccia di due donne diverse» come riportato dalle note di regia. Entrambe si muovono sul palco, con gesti quotidiani: accendono e spengono la lampadina che galleggia sulla scena, si legano e sciolgono i capelli, si truccano…
Simona Generali comincia subito a parlare, e il flusso di parole non sarà interrotto che da brevi momenti di buio. Prende forma, così, un lungo monologo alienante: cogliere il senso delle frasi e ricondurlo a una struttura mentale superiore è quasi impossibile, forse neppure richiesto. L’unico modo per apprezzare la rappresentazione è lasciarsi inondare da questo flusso continuo, che parla di femminilità, vita di coppia, sesso, noia, senza ricercare il significato letterale di ogni sintagma, ma cogliendo quello che si riesce. Insoddisfazione e voglia di vivere si fondono in questo lungo soliloquio, in cui gli amanti non hanno nome né volto, e si sovrappongono.
Uno spettacolo tanto parlato diviene, però, stancante, e non è facile entrare nel ritmo concitato delle parole e dilatato delle immagini, movimenti lenti che paiono dipingere quadri in una penombra asfissiante. Panicucci è per lo più silenziosa, spesso esce dall’azione scenica effettiva, e il suono del suo clarinetto, che esegue linee melodiche scritte da Silvio Bernardi, accompagna scene desolanti.
Vestiti e acconciature che cambiano sembrano suggerire diverse situazioni, ma nel flusso verbale non si riescono a cogliere interruzioni che indichino drammatici cambi di scena.
Il teatro Colombo di Valdottavo è un buon ambiente per uno spettacolo di questo tipo, la cui comprensione richiede la partecipazione emotiva dello spettatore, ma non sempre le voci delle attrici sono riuscite a raggiungere tutta la platea: tuttavia, per l’interpretazione che ne abbiamo fatto, l’assimilazione cosciente di ogni parola va in secondo piano, rispetto a un significato complessivo che si lascia appena intravedere.