Non mi piace Tripadvisor (e simili).
Non mi fido di chi non resiste alla tentazione di esternare pubblicamente giudizi come «curato e spazioso, ma la cortesia lascia a desiderare», oppure «da provare a tutti i costi».
Eppure certe volte (troppe?) ho la sensazione che la critica teatrale, a ogni livello, si sia ridotta a questo, per esempio quando commenta i festival estivi, ammucchiando due, tre, cinque spettacoli in un solo pezzo, come le portate di una cena, e non facendosi mancare mai una glossa sul locale e sul servizio – ovvero sul panorama e l’ufficio stampa.
Ahimè, temo che la sindrome (del consumatore pretenzioso) abbia colpito anche me, perché non riesco a incominciare questo pezzo senza dire che l’organizzazione del Festival Collinarea di Lari, edizione dopo edizione, mostra le solite mancanze. Nel piccolo, costipatissimo teatro comunale non sono riuscito a entrare, causa overbooking (lo spettacolo era Gioco di specchi, con Masella e Brinzi; ne scriveranno altri). E l’immancabile slavina di ritardi ha fatto iniziare l’evento successivo 45 minuti dopo l’orario programmato.
Però, una volta saliti al Castello, passando per i suoi ariosi e suggestivi camminamenti, che sorpresa! Daniele Turconi è un giovane attore e autore milanese, non debuttante ma quasi. Il suo Mondo cane è una specie di monologo sbiellato, comico e spiazzante, grezzo ma vivo, autobiografico e senza intellettualismi di cartone. Nessuna analogia con il geniale e irripetibile documentario di cui riprende il titolo (anno 1962, artefici Paolo Cavara, Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi). O forse sì, una vaga somiglianza c’è: come quello si sforzava di non piacere, con la crudezza delle inquadrature strettissime, con l’ostentato cinismo, con le arditezze sintattiche del montaggio e della voce narrante, anche Turconi non si cura di fare le cose perbene. Aggiusta alla bell’e meglio il suo materiale, partendo da un incipit sul registro tamarro – tubi al neon, felpa di acetato gialla, occhialoni e sigaretta, pessimi remix come colonna sonora – e chiudendo con un improponibile assolo di danza classica.
Tra la testa e la coda, un corpo sformato: Turconi – calata milanese, incedere nervoso – è protagonista di un susseguirsi di conversazioni prelevate dalla fase postadolescenziale: con la commissione dell’esame di maturità; con la fidanzata, una ragazza “sincera”, pure troppo; con la madre, chiamata in causa solo per ripianare i debiti.
Nel mezzo molti cambi di ritmo e anche un finto finale, dopo il quale arrivano le sequenze migliori: un aneddoto familiare totalmente fuori squadra, eppure toccante (la volontaria assistenza prestata dalla nonna e dal padre agli eroinomani del quartiere); e prima ancora la grottesca telefonata con il responsabile di uno stage non retribuito in Molise (come dire: un vertice professionale al contrario), su cui il protagonista deve ripiegare, dopo aver rinunciato a più ambiziosi collocamenti. A volerlo trovare, è proprio questo il tema dello spettacolo: la tragedia dell’ambizione, che è sempre (sempre!) una condanna e ancor di più quando i tempi non permettono che a pochissimi di emergere; e nella tragedia le bugie, i sentimenti e i fallimenti non confessati, e tutti gli urti psicologici di una generazione.