Si dice: vedi Napoli e poi muori. Vero, ma anche a sentirla leggere, Napoli, fa più o meno lo stesso effetto. Se poi a leggere è quella straordinaria figura camaleontica di Toni Servillo, allora sì, l’effetto è lo stesso.
Una scenografia spoglia, solo un leggio e una sedia. Una luce soffusa al centro e poi… Servillo, in tutta la sua eleganza: questa la ricetta perfetta per intraprendere un viaggio dantesco al contrario e dalle tinte partenopee. Qualcosa dentro scatta: l’immaginazione. La potenza del teatro sta tutta lì, nell’evocare costantemente immagini che si attivano nello spettatore, che a sua volta si attiva e partecipa.
Il viaggio inizia, siamo in paradiso, insieme a Vincenzo De Pretore di Eduardo De Filippo.
La lingua napoletana comincia a prendere corpo, con la sua poesia, nel personaggio di Vincenzo che, ucciso dopo un furto, si ferma alle porte del paradiso per chiedere la grazia al suo protettore, san Giuseppe. Il quadro è tipicamente partenopeo, nel dialetto si sente la quotidianità, scorci di vita di Vincenzo, ladro buono costretto dalla vita ad arrangiarsi, mai arreso, neanche di fronte a Dio.
Il viaggio prosegue, i fili si snodano attraverso le parole di autori celeberrimi e altri meno conosciuti, anche contemporanei, come Enzo Moscato e Mimmo Borrelli. La lingua si plasma ad ogni pezzo, cambia, muta, prende sfumature diverse, a volte è più stretta e dialettale, a tratti incomprensibile, ma lasciando spazio alla fantasia, altre è più chiara e semplice, ma sempre efficace e d’effetto. Mai sottotono. Sarà anche il timbro di Toni che si adatta facilmente a qualsiasi personificazione e la sua mimica facciale, mai troppo marcata ma sempre precisa, attenta all’attimo, alla parola detta, alla sensazione evocata. La gestica è tutta all’italiana, accompagna le frasi, le enfatizza, sempre sul limite, senza mai diventare grottesca.
Scendiamo, scendiamo ancora tra i quartieri di Napoli con ‘E sfogliatelle di Ferdinando Russo che ci conduce pian piano sino al purgatorio, luogo di sospensione, limbo per eccellenza. Tocca a Raffaele Viviani con Fravecature, triste storia di un operaio morto: un quadro toccante che racconta la realtà di molti, in bilico ogni giorno tra la vita e la morte, perché la sicurezza sul lavoro tarda ancora ad arrivare: ma se hai du’ criature devi farlo, per loro.
Dopo ‘o vecchio sott’o ponte di Maurizio de Giovanni giungiamo all’inferno, all’inferno senza fine, come l’ha definito lo stesso Servillo. I toni si accendono, s’infiammano, nella lunga serie di imprecazioni di ‘A sciaveca di Mimmo Borrelli. Un testo che richiede un’ottima calibrazione diaframmatica per la sua complessità ritmica, ma anche una mimica che sappia adattarsi a quelle emozioni piene d’ira, che sappia cambiare all’occorrenza, quando il tono cala un po’ e subito risale, ancora più arrabbiato per scaricare tutta la frustrazione. Pezzo, questo, di difficile comprensione, ma il suono della lingua napoletana è magico, si riaccende la fantasia e alla fine, a modo proprio, si capisce ogni cosa.
Siamo giunti alla fine del viaggio e non poteva certamente mancare Totò con la sua ‘A livella; torniamo poi, brevemente, a Eduardo con ‘Nfunno e, infine, prima di lasciare il palco, anzi, di non lasciarlo perché: io non faccio come tutti quegli attori che escono dal palcoscenico aspettando che il pubblico chieda il bis, Michele Sovente con Cos’è sta lengua sperduta.
Torniamo a casa dopo aver girato i quartieri di Napoli con le sue persone, tutte diverse ma in fondo tutte simili, come vuole un popolo unito. E la standing ovation non poteva mancare, meritatissima.
(di Marianna Dimeo)