Narrare è operazione ad alto rischio. Narrar la vita ancor di più. E, più ancora, l’esistenza d’un poeta, un matto, un viandante disperato protagonista d’un percorso sconnesso, sporco come i vestiti indossati, putrescente come il glande tumefatto di sifilide.
La vita è un fatto impestato di brutture. E tempestato di bellezze; se si è artisti. Tragiche, volendo, ché della carne bruciata a carbone dei poeti si pasce il parco buoi di lettori, spettatori più o meno ipocriti, più o meno “a posto”, con, e nelle, loro vite a tenuta stagna, le cose (quasi) sistemate.
Ci vuol coraggio, grazia e incoscienza, per narrare. Un misto d’arroganza e ingenuità: non si legga, in tali lemmi, il discredito consueto che li scorta. Tutt’altro. È, quella di Elisabetta Salvatori, l’ingenuità fanciulla di chi s’ostina a creder (non senza ragione) che si possa raccontare e, dunque, si debba. Distillando alla memoria momenti altrui appartenuti, forse immaginati, forse sognati, certo letti; da filtrare attraverso una sapiente operazione d’artistico arbitrio. Qui s’aggiunge l’arroganza sempre compagna al voler dire, l’implicita petizione d’ascolto che il gesto artistico richiede all’interlocutore, di pagina o spettacolo che sia. E l’arte torna all’alveo tiepido dell’etimo suo: il saper fare.
Salvatori sa fare a raccontare: viola vestita, spalle scoperte, nude come la nera scena in cui pare quasi danzante. S’inerpica sull’aguzza melodia d’un violino solitario, in quel che ci parrebbe impossibile, e quasi sfrontato: raccontar Dino Campana, poeta mezzo matto che fece a pugni e calci e sputa con la vita. Lo accompagna, ce lo canta come una nenia ai bimbi. Non lesina dolcezze, e dubbi: gentile s’accosta alla Romagna contornata di Toscana che è Marradi, il piglio panico e burroso di chi sente, prima che dire.
Il pubblico subito rapito dal respiro del racconto: di questo il critico roso e perplesso deve dar nota. Non tutti han frequentato La chimera, Le vele o La sera di fiera: quasi nessuno, insinua caustico, lo farà, ché i tempi son slabbrati d’informazione, di rapidità, opposta alla lentezza del narrare. Val poco, anzi, moltissimo, questo fuori tempo massimo, la cui consapevolezza, sciente e disperata, è indubbia in chi per vivere racconta e da anni, ormai, vive, e racconta vite d’altri, cercando nelle pieghe dei respinti, degli strani, dei mal riconosciuti (oltre Campana, Antonio Ligabue). E quando canta davvero, con tenera timidezza quasi a dir “non lo vorrei”, la sala sembra, invece, librarsi in volo.
Se narrare è un rischio, informare è una sciagura: quasi lo sosteneva Walter Benjamin, nel perorar la causa di Nikolaj Leskov ultimo (per lui, nel 1936) autentico narratore russo. Il racconto, figlio del ricordo, è lenta trasmissione esperienziale, a sua volta esperienza; l’informazione è rapida, ma, informe, non forma. Ed è così che Elisabetta rende, come può e sa, giustizia al Màt, ora sepolto, da poeta, in quel di Badia a Settimo.
Facile, sin troppo, per noi assisi comodi sulla poltrona della storia, riconoscerne da defunto il valore: altra cosa incontrarlo, averne davanti le intemperanze, le stramberie. E, forse, un poco di pietà, cristiana o meno, andrebbe riservata anche a quei miseri (in buona compagnia, tra Soffici e Papini) che non seppero riconoscerne il valore, smarrendo il manoscritto di Il più lungo giorno: siam così certi che non saremmo stati, pure noi, dei loro? Questo il tarlo che ci attanaglia all’indirizzo del narrare, anche nella più pura, e pura è, e onesta, delle intenzioni. Quella limpidezza che riconosciamo, con plauso, a una vera incantatrice.