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Quaranta minuti da scolpire su pietra. Tutt’altro che facili, o leggibili, ma non sta scritto in nessun dove che teatro e arte debbano essere, per forza, facili o leggibili.
Una luce lattiginosa e calda rischiara un quadrato soprelevato dal palco, scena nella scena. Viene abitato da due presenze muliebri, larvatamente inquietanti, identicamente e pudicamente vestite: maglioncino, gonna castigata, quaderno sotto braccio, come testimoni di Geova in attesa di prede. In sottofondo, rumori, studiatissimi.
Si danno un la, le due, promanando un discorso unico a due voci: la minima piegatura tonale è perfettamente riprodotta all’unisono, in simbiotica esecuzione corale. Cantano, e parlano, dipanando una beffarda interrogazione all’indirizzo d’un terzo che, ovviamente, non c’è. Non replica. La lingua è delicata, caricaturale, sporcata quanto basta d’un che di romagnolo, senza mai parodiare. Nondimeno, la questione è eterna, consustanziale; riguarda Lui, Dio, presenza/assenza alla stregua di quel God(ot) destinato a mai manifestarsi.
«Mi sento girare… mi sento girare…», ritornello che punteggia il dettato, lo àncora a una dimensione logica, eppure sfuggente. Due Parche, come le streghe ghignanti di Macbeth ad annunciare trono e sventura, queste due puntualissime coreute, voci incarnate d’una drammaturgia post-absurdista: il testo è di una, Claudia Castelucci, e risale a una ventina d’anni fa; dell’altra, Chiara Guidi, le scelte ritmiche, e musicali, a rendere la performance più densa e abbacinante di quanto non facciano le sole parole. Questa una delle lezioni più presenti nel lavoro di Guidi: non v’è parola senza suono, e non v’è suono senza intonazione; ecco dunque il cesellare le sillabe, ora squadrate ora levigate, calibrando la minima modulazione.
Dio non replica, è muto, o morto, o chissà dove, fulcro eterno e ineludibile per millenni di pensiero occidentale. Lo squittio questuante s’avviluppa nei tranelli del linguaggio, il dialetto si fa più marcato («Me sento cattiva…»): a noi “mortali” sovvengono certe cose di Antonio Rezza, private, però, del lubrificante zuccarino della comicità. La desolazione sembra la medesima, e forse pure il disisperato cinismo che, chiuso il primo segmento testuale, proietta sul fondale una serie di pubblicità testuali dal sapore brechtiano, anticipate dall’avviso «Pubblicità volontaria. Se vedi, leggi. Se leggi, comprendi», sottolineando la condanna insita nel linguaggio (una volta appreso a comprendere, non si può disimparare).
È sempre il linguaggio tra i fulcri degli altri due brani, ove il discorso a due voci muta in dialogo, confronto aspro, a tratti angosciante: «Come ti chiami?», reiterato allo sfinimento, a esaurirne i sensi possibili, interrogando la lingua stessa, la parola, la sua intenzione, la sua posizione rispetto a chi la pronuncia.
Non c’è traccia di virtuosismo né di compiacimento per una performance tanto ieratica da giustificare tale sospetto: il tutto ha una sua intima necessità, e la forma, potente quanto inafferrabile, fa pensare al teatro greco antico, così distante, e inumano.
In conclusione, la separazione diviene spaziale: Chiara esce dal quadrato, al termine di un’ulteriore tirata, questa volta sul saluto, «Ciao». Se ne va, minuta, quasi alla chetichella, eppure è uno scossone.
Raro, rarissimo assistere a del teatro tanto antico, nel senso più profondo del termine, antipodico a “sorpassato”, come quello della Societas. Uno spettacolo (lo si ascolti qui) che, in quanto grande opera, ha bisogno di tempo, e cura, per essere assimilato, dinamica pressoché sconosciuta, ormai, ai nostri tempi.
Non si poteva chiudere in modo migliore, questa serie di Lucca Visioni.