A teatro si va in coppia perchè è come con una bottiglia di vino da 75 cl: in due la si gusta meglio. Si assapora senza eccedere, si giudica con un disteso confronto.
Il raffronto dopo (e mentre) Memory Plays, oscilla tra la profusione di parole e l’imbarazzo del silenzio. Ci si interroga sul testo, sui significati che esso cela; si tace, invece, quando vogliamo capire i legami relazionali (questo è il lascito del nostro teatro di prosa a discapito dell’alienante e “assurdo” teatro straniero) tra personaggi. Dario Marconcini dispone un lavoro su tre drammi pinteriani a sé stanti, filo conduttore il ricordo, la memoria vacillante, onnipresente in ognuno di noi.
Assistendo al trittico per intero, si nota un vero e proprio percorso, un’escalation che principia con tre personaggi di cui non s’intuisce precisamente il legame, passa all’amore di coppia di due persone adulte (ci sovviene un’eco da Le pagine della nostra vita di Nicholas Sparks) per giungere alla famiglia, con le sue incomprensioni, i suoi “non detto”, le sue seccature.
Con il vino avviene il contrario: con l’entusiasmo iniziale, si percepisce il profumo, gli aromi, se ne rimane inebriati per un poco; successivamente, lo si accosta al palato, magari accompagnandolo al cibo, per poi abbandonarlo per l’ammazzacaffè. Ciò che rimane, in entrambi i casi, è il ricordo.
“Silencio no hay banda” ci ricorda David Lynch, mentre il suggestivo incipit di Silence (già recensito su questi schermi qui) si distende sulle note di Autumn di Paolo Nutini; emergono i profili dei protagonisti, seduti su uno sgabello, una poltrona e una sedia in proscenio, alle cui spalle si apre un bosco di alberi spogli, di cui non si vede fine. Le sedute rispecchiano le caratteristiche dei personaggi: lei (Giovanna Daddi) irrequieta e in continuo movimento, ora con un cenno, ora accavallando le gambe; lui (Emanuele Carucci Viterbi), scattoso e austero, la passione per i cavalli rimarcata dagli alti stivali marroni; l’altro (Marconcini), realistico e turbato dal rimembrare.
Un’istantanea di ricordi è Notte: un uomo cinge le spalle di una donna seduta a un tavolino. In questo lungo abbraccio (dieci minuti), i dolci ricordi di lui vengono a galla per sfociare nel mare dell’oblio della donna. Dolce e romantico l’uno, fredda e indifferente l’altra, meticolosa la resa dei due attori, ancora Marconcini e Daddi.
Il ciclo giunge al termine con le voci, quelle di una madre, un figlio e un padre defunto; insomma, le Voci di (una) Famiglia (recensito a primavera) che si confrontano tramite lettere, in un rapporto rattrappito e ricco di incomprensioni. Carucci Viterbi catalizza l’attenzione su di sé, sul proprio eclettico personaggio che, descrivendo in modo certosino le proprie “esperienze”, dà allo spettatore la sensazione di riviverle con lui. Tramite un semplice velo trasparente, con l’ausilio di luci sapientemente ricercate, sono delimitate due zone fisicamente vicine, ma scenicamente remote. Viterbi, in proscenio, si muove intorno a un vecchio sofà, Daddi, retrostante, è seduta di fronte a un vecchio tavolino da fumo. Dall’unica porta, in fondo a destra, comparirà il compianto padre con i suoi più grandi rimorsi.
La conclusione è come l’incipit: musicale. Stavolta è il Lamento di Didone dal Dido and Aeneas di Henry Purcell ad accompagnare gli attori in uno scroscio di applausi e apprezzamenti.