Vi siete mai affacciati sul mare in un mattino di scirocco? Lo scirocco, vento caldo proveniente da sud-est, fa bruciare gli occhi e altera i contorni, riscalda l’aria in modo insinuante, fastidioso; le temperature salgono improvvisamente e le città diventano fornaci di corpi sudati: le città mediterranee, e Palermo, in particolare. Si dice che la “Palermo bene”, quella del Gattopardo, si rifugiasse, nei giorni di intensa calura, in apposite camere seminterrate e umide, dette “le stanze dello scirocco”. Nella semi-oscurità di questi anfratti sembra collocarsi lo spettacolo di Emma Dante, autrice e regista palermitana di conclamata fama europea; con Le sorelle Macaluso, nell’ambito del progetto europeo Città on stage, la Dante torna mPalermu e la risucchia: lo spettacolo si nutre delle viscere fetenti del ventre del capoluogo siciliano, poi respira a pieni polmoni il profumo del mare.
Le sorelle del titolo sono sette (Serena Barone, Elena Borgogni, Italia Carroccio, Marcella Colaianni, Alessandra Fazzino, Daniela Macaluso, Leonarda Saffi), il padre, Sandro Maria Campagna, è un “picciuttieddu” piagato dal peso degli anni e della fatica di cento onesti, disumani lavori; la madre, Stephanie Taillandier, è un figura angelico/esotica dall’accento francese. Una delle sorelle ha, a sua volta, un figlio, Davide Celona. Questi i personaggi. Eppure le loro esistenze si incrociano su piani temporali differenti, oppure in un luogo della memoria in cui il tempo è assente.
Una lunga sequenza coreografica mette in moto il delicato ingranaggio scenico: tutti gli attori compongono un corteo funebre, e marciando percorrono i metri del palcoscenico in tutte le direzioni: una processione ancestrale che avanza dal buio dei tempi. Schierati in proscenio, poi, gli attori raccolgono spade e scudi e, rumorosamente, si trasformano in pupi temerari, guerrieri della quotidianità dolente. Non c’è gioia che non lascia trasparire un dolore amaro, il ricordo non è solo spensierato, ricordare apre squarci, lascia sanguinare.
Rimaste sole, le sette donne, splendidamente coordinate nei gesti, prendono a raccontarsi la propria infanzia, la rivivono. È un rito di rigenerazione: l’intero spettacolo è un lungo scongiuro della morte, più che mai presente, e un inno alla vita. Corpi svestiti, corpi vibranti, sudati, corpi impegnati nelle convulsioni della morte. L’occasione che permette l’incontro delle sorelle è la cerimonia funebre della maggiore di loro, Maria. La ragazza, insieme al padre, alla sorellina minore, al nipote aspirante calciatore, è in scena con gli altri personaggi, i quali ricordando, in quella fase di lucidità intermittente che accompagna il decesso di una persona cara, costringono tutti a ripetere episodi di vita vissuta.
La drammaturgia aderisce alle azioni sceniche degli interpreti, tanto da dare l’impressione di essere un montaggio posteriore di creazioni attoriche. La lingua è, di nuovo, nel teatro della Dante, il dialetto: siciliano con un’eccezione, una delle sorella parla pugliese. L’attore, costretto alla precisione del gesto e alla musicalità della voce da estenuanti sessioni di prove, vibra di un senso di libertà. Allora i corpi volteggiano, si toccano, si spengono, sussultano ancora: le ragazzine vengono strattonate dalla corsa di una corriera che si dirige verso il mare, la madre e il padre danzano una coreografia intensa come una notte d’amore, ancora il padre racconta un’ingiustizia sul lavoro di cui sentiamo “il feto”, la puzza. I morti convivono con i vivi, recitando senza fine la propria morte, proprio come avviene nella mente di chi ha perso un congiunto, montaggio pre-logico di immagini, reminiscenze latenti di un corpo universale.
Danza nudo il corpo di Maria nel finale – nudità motivata, necessaria – nudo perché regredito all’infanzia, nudo e inerme come l’uomo di fronte alla morte.