In scena si snocciola il rosario, si recita una preghiera in onore di un misero e decadente dio Italia. È una divinità sorda quella a cui ci si rivolge, affetta da un mutismo impenetrabile, succube di stringenti e corrosivi meccanismi sociali, assuefatta da droghe civili che l’hanno resa ciò che è adesso.
Il palco è quasi vuoto, il sipario aperto. Incorniciate nel nero delle quinte, solo due sedie travestite da trono con stoffe evidentemente rammendate. Dietro di esse uno schermo da proiezione dove, in corso d’opera, uno struggente Alberto Manzi cercherà di convincere che l’uomo è animale pensante nel suo storico Non è mai troppo tardi. All’ingresso, le due interpreti attendono accogliendo gli spettatori ai quali consegnano un minuscolo planisfero con alcuni paesi segnati, stranamente pendenti, storti, obliqui, e tra di essi anche il nostro. Ella (Ilaria Pardini) ed Èlla (Lucilla Tempesti) vivono in simbiosi, sospese tra realtà e percezione, inseparabili. Due delle tre parche a tessere il destino di Italia; adagiate sulle poltrone, una verde l’altra rossa, Atropo e Cloto vivono immerse in un’attesa senza fine aspettando, come Vladimiro ed Estragone, qualcosa che non arriverà. In mezzo a loro un bianco ancora da tessere, un’ identità nazionale vacillante e incompleta riassunta nel nitore dei gomitoli ammucchiati.
È nell’attendere che l’Italia si rivela essere insolitamente obliqua, nazione storta, prerogativa di pochi paesi che, come lei, vivono questa condizione. «Obliquo è traverso. Pendenza. Precarietà. Salita, discesa. Fatica in movimento. Obliquo è ambiguo. Sensi in accelerazione, caduta libera, radicamento e levità». La reazione a questa scoperta si rivela per le due di differente sostanza: per una, stimolo al progresso e al cambiamento, visione sognatrice e teneramente ingenua che guarda a un futuro di scoperta, per l’altra limitazione e chiusura, condanna di instabilità e claustrofobica incertezza. In questa dinamica, vani sono i tentativi di convincimento che l’una prova a fare all’altra, sarà Èlla infine a decretare che la soluzione è unica e mortifera: fuggire.
Un lungo dialogo, quello ideato da Lucilla Tempesti interprete e creatrice del testo, giocato su efficaci cambi di registro che ne tengono vivo il ritmo e alimentano la ferocia delle parole. Strutturato a piccoli episodi, quasi fosse una scatola cinese, con martellante cadenza si arriva a girare il dito in ognuna delle piaghe che torturano un’Italia moribonda e superficialmente patinata. Una messa in scena sardonica che invita il pubblico a prendere lucidamente parte al gioco crudele di una nazione tragicamente deludente e contraddittoria, costantemente in bilico nel suo essere e nella potenzialità del suo divenire.