“Mi ha colpito il non scritto”, mi ha detto un caro amico commentando la drammaturgia di Bar; proprio da questa prospettiva è interessante raccontare il teatro della compagnia Scimone e Sframeli. Testi per la scena, incarnati nei corpi degli attori e nella presenza fisica dello spettatore. Sframeli definisce il testo un ricamo, e nei volteggi del filo intrecciato si insinua la vita del fatto teatrale; Scimone parla della difficoltà di riempire i buchi, di scrivere i silenzi. Che fosse difficile scriverlo, un silenzio, l’ha sottolineato Beckett e lo ha ribadito Eduardo, – insieme a Pinter, riferimenti della drammaturgia scimoniana – ma tanta difficoltà, sulla scena di questi attori-autori è risolta nel corpo e nella voce di Francesco Sframeli (La Bruciata in Pali, Nino in Bar).
La sua interpretazione così sfrontatamente antinaturalistica, costruita, risulta coerente al contesto tanto da camuffare la cifra artificiosa che la regge: i personaggi che l’attore incarna sono montati pezzo per pezzo nel tempo delle prove, i meccanismi scenici e drammaturgici rigidamente calibrati. Occhi, espressioni, virtuosismi vocali si attorcigliano nel florilegio discorsivo e si spengono nell’afonia, acrobazie di una lingua sonora – il dialetto messinese in Bar, la reiterazione insistente della battute in Pali – nelle infinite volute dell’interpretazione.
Prostituzione, sfruttamento, caporalato, disoccupazione, emarginazione, emigrazione, menomazioni psichiche e fisiche, sessualità castrata o compromessa, sono queste problematiche sociali a farsi contesto d’azione, a pretendere lo spazio di una denuncia non dogmatica perché esibita. Gli spazi, anche nel più concreto retrobottega di Bar, sono spazi assolutamente metaforici (uno stiacciato di Titina Maselli per Bar, una crocifissione alla Rothko per quanto riguarda l’impianto scenico di Pali firmato da Lino Fiorito) lo spazio, del dolore, lo spazio del grido, quello della solidarietà tra gli ultimi.
Pali è l’atto finale di un mondo che si scioglie in un mare di merda; due emarginati sociali Senzamani/Scimone, operaio vessato dal sistema, e La Bruciata/Sframeli, prostituta-trans maltrattata/o, a un certo punto hanno alzato la testa e hanno deciso di vivere sui pali. Tre pali infatti troneggiano in scena, quello centrale apocalitticamente vuoto, al di sopra di un rialzo verdeggiante; dietro, una grande cornice dorata regge lo sfondo. L’eterna routine che inchioda la staticità della situazione viene interrotta dall’entrata, ripetuta come un’entrata in scena, di due personaggi (Gianluca Cesale, Salvatore Arena) che “non entrano mai allo stesso modo”, denuncia dell’emigrato e dei suoi tentativi di “ingresso”. La cifra stilistica che struttura la messinscena è di pulitissimo straniamento tendente all’assurdo. Tra preghiere a Dio padre e dichiarazioni di violenze subite, i quattro attori in scena denunciano soprusi e piaghe contemporanee: violenza penetrante, drammatica, come la necessità di fare l’uovo per far ridere gli “altri”, o il disagio di un “culo” martoriato dalle troppe file e spinte… per “entrare”.
Bar, per la regia di Valerio Binasco, è la ripetizione degli atti inconcludenti, sempre uguali, di una microsocietà suburbana che, mosche in un bicchiere, storicamente si arrangia. Due amici, Nino-Sframeli, cameriere che lavora in nero, Petru-Scimone, faccendiere senza efficacia, si ritrovano nel retro del bar, dopo la chiusura, a confrontare le loro banali esistenze fatte di malessere e frustrazioni, anche inconsapevoli, in attesa di un misterioso malavitoso, Gianni. Le quattro scene in cui si struttura la pièce sono infatti scene di attesa, l’azione avviene negli intermezzi non rappresentati, e gli attori la commentano. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità”, dice Nell, uno dei personaggi di Finale di partita di Beckett, e Bar riserva momenti di pungente vis comica nei quali lo spettatore è spiazzato dalla prossimità di quel mondo con il nostro: ridiamo di ciò che conosciamo, di un orizzonte che condividiamo.
Nel teatro di Spiro Scimone, spesso tacciato di pessimismo, ancora la solidarietà, anche se forse una solidarietà di classe, apre tuttavia alla speranza: Nino darà le proprie “scarpe da tennis” a Petru per permettergli di lavorare il giorno dopo, i due abitanti dei pali, la Bruciata e Senzamani, in fuga da un “mare di merda”, inviteranno i nuovi arrivati a prendere posto accanto a loro.
Non è esteriore la scossa che lo spettatore subisce a contatto con queste due serate teatrali – che si inseriscono in una “personale” che La Soffitta e l’Arena del Sole di Bologna dedicano alla compagnia –, i soprusi e lo sfruttamento sono merda, merda nella quale quotidianamente sprofondiamo; spesso chi emerge è folle, sale su pali che sono croci e gogne, luoghi dai quali si prega un Dio che ormai “non può più darci una mano, non può più mandarci nessuno che possa darci la mano”.