Accolti dalla penombra d’uno spazio reso ignoto da un timido chiarore di candele (l’ampia sala che SPAM! solitamente adibisce a foyer), depositiamo armi e bagagli, scarpe incluse. Una pioggia maldestra ticchetta la superficie del capannone, rendendo ancor più polanskiana la singolare circostanza. Ci prendiamo per mano con altri due compagni di visione, obbedendo ai cortesi dettami di Massimo Munaro, storico membro e fondatore del Teatro del Lemming: al centro della sala Cestaro, campeggia una quadrilatera struttura su cui siede una forma antropomorfa. Veste una sorta di saio dal colore poco percepibile. Sibila qualcosa al microfono: suono sottile, da rettile in attesa.
Oscurità, inquieta incertezza, cecità come approdo estremo, questa la moneta coniata dalla compagnia rodigina in un peculiare percorso che abbraccia tre decenni di scena, con esperienze volte a indagare, sfibrare, persino sfondare i limiti endemici del teatro, sfidandone le aporie, manomettendone i gangli fondamentali: un lavoro di erosione condotto con paziente dedizione, perseguendo la via, personale e impervia, che passa dal teatro dribblando lo spettacolo, prediligendo il senso sul numero, lo spettatore sul pubblico. Per il Lemming (curioso roditore scandinavo la cui esistenza è spesa in una disperata migrazione senza meta da concludere col suicidio in mare) è fondamentale porre lo spettatore al cuore del fatto scenico, eleggerlo a protagonista sensoriale della performance, in un rovesciamento di convenzioni che nega ereticamente lo sguardo quale dimensione aristotelicamente primaria dell’esperienza teatrale (là dove teatro implica, nell’etimo, l’atto di vedere).
Per questo ci troviamo distesi su un pavimento di morbidi materassi, immersi in un buio né amico ma neppure nemico, disposti a raggiera, le teste convergenti verso il rettangolo descritto dalla struttura di tubi. Sopra essa, uno specchio che, talvolta, rimanda vaghe immagini di quella figura femminea (Chiara Elisa Rossini) che narra, si muove, appare e dispare sulle note d’un pianoforte, tessendo una fitta trama di lacerti testuali: Martino Ferrari (altro fondatore del gruppo, scomparso prematuramente), Ferida Duraković, Alda Merini, Rainer Maria Rilke. La struggente vicenda di Orfeo ed Euridice è mito, asse portante: in quanto racconto, patrimonio condiviso da millenni, è orizzonte già (di)spiegato, qualcosa che ci parla ancor prima d’aver voce, per quell’insostituibile e portentosa macchina del tempo che è il teatro (in ciò, compagno della letteratura). Riempiono lo spazio le note d’un pianoforte: è Munari medesimo a carezzarne i tasti, per una partitura carica di pathos, che indugia scientemente su tonalità minori.
Volume e penombra sovrastano parole e immagini: la con-fusa oscurità, da cui tutto promana e cui tutto ritornerà (lo dice Shakespeare, mica un arlecchino qualsiasi), è destinata a prevalere. A noi non resta che l’inquieto piacere di un’immersione tattile che, senz’altro, non dimenticheremo, col solo tarlo dubbioso circa l’effettiva pregnanza tra il soggetto prescelto (Orfeo disceso nell’Ade a reclamar l’amata) e questo peculiare modus di allestimento. L’impressione, infatti, è che, almeno in questo caso, lo stile come marcatura distintiva (croce e delizia per qualsiasi produzione artistica) finisca per segnare l’esperienza ben più di quanto non faccia il racconto in sé, e ciò possa costituire, in un certo qual modo, un limite endemico del lavoro.
Consensi composti dallo sceltissimo pubblico di SPAM.