Around the world around the world risuona nella testa di chi scrive: non si è a un concerto dei Daft Punk né in una discoteca per un revival anni ’90, bensì alla Tenuta dello Scompiglio, dove si ha il piacere di assistere alla performance John Doe del Gruppo Nanou.
Il pezzo elettronico del duo francese non fa parte della colonna sonora dello spettacolo, ma salta subito alla mente per i movimenti sincopati e l’uso delle luci presenti in scena, molto affini al bel video firmato Michel Gondry.
Si è nostalgici con John Doe: viene voglia di Mulholland Drive, di Laura Palmer (l’altrettanto lynchiano Twin Peaks, ovviamente) di vecchie poltrone rosse, lampade dalla luce ballerina, donne esorcizzate che camminano come aracnidi.
Non si ha una trama ben delineata, ma si procede per azioni, sensazioni che navigano attorno all’immagine scenica.
Siamo in una stanza che ricorda quella di un motel, vi si trova una coppia di figure femminili in simbiosi che delimitano, con alcuni passaggi coreografici in sincrono, lo spazio scenico; a loro si uniscono una donna e un uomo le cui funzioni sono a sé stanti.
Con il nome John Doe si è soliti nominare una persona di cui non è nota l’identità, definizione americana spesso attribuita a ritrovamenti di cadaveri. Tale alienazione si ripercuote in scena: non sappiamo chi siano queste quattro figure, cosa stiano facendo e quale sia l’ambiente rappresentato, ma comprendiamo soltanto la bella immagine fotografica palesataci dal quadro scenico.
Si principia con rumori di varia e dubbia origine, dall’acqua al traffico della strada, per poi passare a una musica incerta e tormentata, realizzata con strumenti elettronici, perfetto contrappunto alle luci intermittenti e fredde. Giovanni Marocco firma il progetto illuminotecnico creando un potente effetto glaciale: pur adoperando, oltre ai colori freddi, tonalità più calde, queste ultime (raggelanti toni rossi o aranciati) non trasmettono calore o passione, e contribuiscono a tradurre ulteriormente un’idea di alienazione.
Nonostante il vasto spazio offerto dalla sala, le figure si muovono intorno al centro della scena, occupato da una poltrona sovrastata da una struttura in metallo, come in una sorta di calamita dai poli opposti, dove non è possibile raggiungere l’epicentro. Quando le performer, finalmente, riescono a occupare il nucleo scenico, immediatamente se ne discostano: è come se la poltrona porporata fosse davvero incandescente e sedervisi operazione impraticabile: vi si sale con i piedi e si salta oltre, ci si poggia appena per catapultarsi di lato, la si valica con capriole, ma non la si usa mai nella sua apparente comodità.
Una tenda di fili bianchi si discosta dal fondale creando un ulteriore passaggio, spesso illuminato di rosso, dove le figure, passando, creano piacevoli giochi di ombre. E se, da un lato, si osservano movimenti sinuosi e circolari di una donna con abito anni sessanta bianco e nero, dall’altro, emerge dal fondo una figura androgina, che appare senza testa, grazie alla posizione assunta dalla performer incavando le spalle. Animali, esseri umani, insetti e alieni sembrano ospitati in questa stanza, indiscussa dimora d’inquietudine e angoscia.
L’idea è molto interessante, benché l’intero assetto ci sembrerebbe più relazionabile a un evento performativo di dieci minuti che a uno spettacolo di un’ora. L’attenzione, lentamente, si allontana dalla scena, per soffermarsi su una luce verde alla sinistra dello spettatore; non fa parte dell’azione, è il logo luminoso che in tutti i teatri crea fastidio e che in questo caso indica la salvezza: l’uscita d’emergenza.