Dalla nota trasposizione cinematografica di Giuseppe Tornatore alla fumettistica interpretazione disneyana (i più assidui lettori di Topolino ricorderanno, in un albo del 2008, La vera storia di Novecento), ancora una volta il folle pianista baricchiano, riportato alla sua forma originale di monologo, sa emozionare.
Per utilizzare un’espressione prossima al patetismo, scocca quella scintilla emotiva che, talvolta, riesce a infiammare silenziosamente lo spettatore, far sì che rimanga con il fiato sospeso e lo sguardo fisso su quell’unico corpo recitante − Ciro Masella − che, dietro un leggio, ora fa semplicemente uso della voce (sfoggiando un affascinante ventriloquismo che di tanto in tanto strappa una risata) e della mimica facciale, ora muove qualche passo di danza, ondeggiando come sul ponte del Virginian.
Nel ristrettissimo pubblico − ci troviamo nella sala di un hotel, atmosfera priva del fascino di un teatro ma, forse per lo spazio relativamente modesto, abbastanza intima − alcuni sorridono, altri annuiscono, ripetono le battute (i cari lettori saccenti), altri ancora, affascinati, nei punti di maggior intensità trattengono le lacrime. Quel che è sicuro è che, grazie a una sapiente lettura, lo spettatore si lascia trasportare al punto che l’immaginazione non può che dipingere vividi scenari mentali.
Certo, al termine della lettura ci si sente davvero allucinati, ma questo accade sempre alla conclusione di ogni grande libro, quando l’universo d’inchiostro si staglia nella mente vivido e reale (ogni appassionato lettore ha sperimentato un’emozione del genere) per poi, in un istante, crollare, lasciando uno strano senso di opaca nostalgia.
Masella ci regala un’interpretazione personale del monologo, che non può non affascinare lo spettatore, piena com’è della sua consueta verve.
Il finale è l’esito a cui nessun uomo moderno può sfuggire; protetto nel suo piccolo mondo ben classificabile, ben misurabile, entro 88 tasti dalla perfetta bicromia, Danny Boodman T. D. Lemon Novecento rappresenta forse il dramma più tipico del XX secolo, affrontato da letterati e compositori: l’improvvisa consapevolezza della mancanza di senso, la sensazione di intima piccolezza di fronte a un universo nella cui immensità non si ritrova alcuna entità benevola o provvidenzialistica, ma soltanto un’immensa solitudine caotica. E a molti di noi si inumidiscono gli occhi mentre il pianista racconta, con ingenua disperazione, di aver dissolto i propri desideri, cristallizzati in istanti perfetti. Ed ecco che FRAN! il quadro cade, e non perché vi sia un motivo.
L’intima dissonanza, che è alla base della letteratura del Novecento, è ancor più visibile nella vicenda a tratti ironica (basti pensare alla figura scontrosa e altezzosa di Jelly Roll Morton, “l’inventore del jazz”, sfidato e battuto dal protagonista) e profondamente drammatica di Novecento.