È una stagione breve, quella del Nuovo Teatro delle Commedie, ma è di straordinaria importanza che la città di Livorno abbia recuperato, grazie al progetto Teatri di confine della Fondazione Toscana Spettacolo, uno spazio intenzionato ad accogliere forme e generi diversi da quelli ospitati nel primo (e quasi unico) luogo scenico cittadino. Nei prossimi due mesi sarà la volta di Virgilio Sieni, Saverio La Ruina, Michele Santeramo e un Calapranzi di Pinter con cast interamente femminile che incuriosisce non poco.
Sfortunatamente questo elogio della diversità non può applicarsi allo spettacolo visto venerdì 16 gennaio, Jesus di Babilonia Teatri, giacché la matrice della performance è la stessa dalla quale i veronesi Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, fondatori della compagnia, hanno ricavato quasi tutti i loro lavori (ricordo almeno Made in Italy, Pornobboy, The end, Lolita): un tema forte, divisivo, per usare un mostruoso vocabolo da talk show; una costruzione paratattica di sequenze distinte contrassegnate da un’inondazione di parole e accompagnate o intervallate da una diastole musicale fortemente didascalica (assai prevedibile in questo caso la scelta della ruvida Gesù di Nada, di Personal Jesus nella versione metal di Marylin Manson e della struggente Hallelujah cantata da Jeff Buckley). Ciò che emerge è la qualità iper-riflettente della scrittura, che si incarna nella figura di Valeria Raimondi. La sua non è una performance da interprete o da monologhista: in vero non è che una testimone (ben corazzata, tuttavia), che rigurgita situazioni, luoghi comuni, espressioni idiomatiche e frammenti di una realtà in cui la maggior parte di noi si immerge distrattamente.
Jesus dura meno di un’ora, e il suo procedere per accumulo di segni, con una ritmica ossessiva, suona come una irrimediabile fragilità, una riconoscibile tendenza alla disarticolazione (è da chiarire se si tratti di incapacità o di scelta deliberata): lunghe catene anaforiche, tirate aggressive e provocatorie sulla degenerazione venale del culto, santini sparati in platea, domande retoriche e assillanti risposte in forma di elenco, che sembrano costruite usando il completamento automatico dei motori di ricerca («Jesus è il nome del fidanzato di Madonna / Jesus è un paio di jeans / Jesus è una miniserie televisiva / Jesus gioca nell’Inter / Jesus è il migliore amico del grande Lebowski», così grida la Raimondi).
Dal punto di vista visivo, obiettivamente, non c’è molto da vedere. Scena aperta con americane e tiri a vista: un agnello legato per le zampe e calato su uno strato di patate, pronto per l’ultima cena, e lettere luminose a formare il nome JESUS per l’ultimo violento strattone.
Applausi imbarazzati di un ridotto pubblico sventuratamente formato da anziani e ragazzi usciti dall’oratorio.