Il secondo appuntamento della stagione lirica del Teatro del Giglio riprende, dopo 55 anni di assenza, uno degli ultimi capolavori di Giuseppe Verdi. Seconda delle tre opere di diretta derivazione scespiriana (il compositore fu un ammiratore del Bardo fin da giovanissimo), l’Otello è, di per sé, un soggetto che ha molto in comune con il melodramma: un fazzoletto al centro dell’intrigo, un protagonista poco accorto, il conflitto tra dimensione privata e pubblica/politica.
Il terzetto dei cantanti che danno vita all’opera è eccellente. Mikheil Sheshaberidze è il generale veneziano che ritorna a Cipro vittorioso: il tenore georgiano ha guadagnato fiducia durante il primo atto, per poi procedere con sicurezza tra le insidie del resto dell’opera. La moglie, di cui viene messa in dubbio la fedeltà, è interpretata da un’intensa Elisa Balbo, sempre molto misurata e precisa. Chi davvero spicca, in scena come sulla locandina, è Luca Micheletti: sempre al Giglio, nel 2013, fu la rivelazione di La resistibile ascesa di Arturo Ui, che gli valse l’UBU come migliore attore non protagonista; lo ritroviamo adesso come baritono, ed è un altro successo. Perfettamente a proprio agio nei panni del perfido Jago, Micheletti impressiona non solo per la voce ben centrata e squillante, ma soprattutto per le doti attoriali: ogni parola è cantata con chiarezza e pregnanza, mentre la consapevolezza scenica ne conferma la statura teatrale. A chi non frequenta il melodramma questi possono sembrare rilievi superflui, ma certe doti, non di rado, latitano tra i cantanti.
Cristina Mazzavillani Muti firma la regia di questo pregevole lavoro che ha debuttato a Ravenna nell’autunno scorso. L’allestimento parte, idealmente, dal nero, tanto che per buona parte del primo atto si fa fatica a percepire la struttura del cupo apparato scenico. Dal buio emergono talvolta solo volti e pochi oggetti, grazie ai costumi molto scuri di Alessandro Lai: in questo modo, la regista può facilmente direzionare l’attenzione dello spettatore.
Vincent Longuemare utilizza la scatola scenica come una tela caravaggesca, le sue luci precise fendono nettamente lo spazio, in un percorso di scoperta dell’esistente che va dal particolare al generale. In quest’economia di mezzi, tutto assume un significato chiaro: tra i pochi colori in scena, il rosso è il colore di Otello e degli stendardi veneziani, mentre Desdemona è sempre in vesti candide – bianca, infatti, come viene spesso menzionata nel libretto; Jago, invece, sembra vestito come gli altri della corte, ma le ampie maniche chiare lo rendono facilmente identificabile.
La resa visiva è sicuramente efficace, così come la direzione dei cantanti-attori: in sintesi, lo spettacolo è più che piacevole da vedere e da sentire, complice Nicola Paszkowski alla guida di una smagliante Orchestra Giovanile Luigi Cherubini.
Si avverte, però, una lettura poco profonda del dramma da parte della regista: il trio Verdi-Boito-Shakespeare ci offre elementi etico-politici (il tradimento), psicologici (la gelosia), e criminali (l’omicidio di una donna da parte del partner) che val la pena problematizzare per usare il testo in modo più tagliente e scomodo. In questa occasione, il soggetto viene usato per costruire uno spettacolo molto suggestivo, con ottimi interpreti e una buona sapienza teatrale, ma non si aggiunge niente al significato dello stesso: non c’è niente di male (ad averne, di spettacoli del genere!) ma è con un intimo senso di manchevolezza che ci uniamo ai copiosi e meritati applausi del teatro lucchese.