È una domenica soleggiata a Roma, di quelle che anticipano la primavera: condizione perfetta per l’ennesima replica di Angelus, caso teatrale curioso che, dal 1954, si è fatto format per affrontare il tempo che passa. Pur prevedendo una fitta tournée (sono previsti, nei prossimi mesi, Armenia, Polonia, Kosovo, Spagna, Francia, Svezia), milioni di spettatori si riversano nell’antica caput mundi per poter assistere allo spettacolo nella sua scenografia originale, firmata da Gian Lorenzo Bernini: una piazza ovoidale, con due grandi fontane, è circondata da un largo porticato con colonne trabeate. Lo spazio scenico si trova più lontano, all’ultimo piano del Palazzo Apostolico, ma i grandi maxi-schermi (probabilmente non berniniani, come indicano alcuni recenti studi) rendono più agevole la fruizione della performance. Una potente luce di mezzogiorno, fornita dall’Altissimo, illumina frontalmente la scena, senza lasciare spazio alla minima ombra.
Si apre un piccolo sipario bianco e appare Jorge Mario Bergoglio, attore argentino di grande successo, affermatosi ultimamente con il ruolo di Papa Francesco, che interpreta anche nella presente messinscena. Saluta in modo informale, accentuando quella sua dizione esotica che lo ha reso celebre sui palchi di tutto il mondo. Pur consapevole della distanza dal pubblico, cura attentamente mimica e gesti: anche se certi dettagli andranno perduti, lui ne ha bisogno per rendere meglio il personaggio (è evidente, qui, la sua formazione sulle orme del mai troppo rimpianto Stanislavskij). I più esperti sapranno cogliere, nello sfacciato tremore della mano sinistra, la dovuta citazione al maestro a cui si è ispirato, superandolo.
Ci racconta del suo viaggio in Messico, dell’incontro con la Madonna di Guadalupe, del mare dello Yucatàn: temiamo che stia per mostrarci le diapositive delle sue vacanze, ma conosce il valore della brevità e passa al segmento successivo, glissando impercettibilmente sulla politica internazionale (l’impegno a Cuba) e sul monito contro la pena di morte. Giunge il momento più importante, quello che dà il titolo a tutto lo spettacolo: il rito in cui si celebra l’incarnazione di Dio nel corpo di Cristo («E il Verbo si fece carne», recita la locandina). Poche battute, seguite da diversi bis: la hit Gloria, il celebre Eterno riposo (a grande richiesta) e l’immancabile Benedizione.
Uno dei tratti fondamentali, specialmente nella seconda parte della piéce, è il sistematico coinvolgimento del pubblico, a volte raggiunto anche con biechi trucchetti. Durante la preghiera, altre voci amplificate si alternano a quelle del pontefice per stimolare la partecipazione degli spettatori a un copione ormai noto. Il pubblico condivide un certo orizzonte di riferimenti, tra cui la convenzione che impone di ripetere alcune frasi e gesti in sintonia con l’attore. La rottura della quarta parete, più tardi, è affidata a un trucco da villaggio turistico: vengono nominati alcuni gruppi presenti in Piazza San Pietro, che rispondono con entusiasmo, illudendosi di un legame particolare con il protagonista.
Il testo vagamente attribuito allo Spirito Santo (nel caso, si tratterebbe del più antico ghost-writer della storia) ha il grande dono della brevità, ma è messo in ombra dall’incredibile capacità performativa del suo interprete. In questa particolare domenica, che cade nella stagione del Giubileo, agli spettatori viene consegnato un simpatico memorabilia: la Misericordina (si veda foto sopra), piccola scatola che parodizza un farmaco e che contiene un rosario e un’immagine di Cristo. Ecco, Jorge Mario Bergoglio, sfoderando senza remore il suo talento ironico, surclassa anche questa recensione.