Era tempo che non passavamo dalle parti del Teatro del Sale, in via de’ Macci, una Firenze centrale eppur anfibia, sospesa tra l’altezzosità d’una multiforme capitale e la dimensione operosa dei più popolari angoli gigliati, quelli ben descritti del miglior Pratolini. La creatura di Maria Cassi e Fabio Picchi conserva i pregi d’una brillante idea, gestita con piglio tosco (attenzione ai dettagli, senza affettazione) nell’abbinar buon cibo e programmazione di tutto rispetto.
Giungiamo in loco sfiancati da un tour negli augusti caffè in piazza della Repubblica (prender parte, dinanzi le Giubbe Rosse, a una rissa causa recensione negativa, come occorso tra Marinetti, Carrà, Boccioni e Soffici il 30 giugno 1911: sogno che, assieme all’arlecchino Andrea Balestri e i di noi crescenti detrattori, potremmo realizzare, anzi parodizzare, ben presto), il che rende ferreriana la sempre opulenta esperienza gastronomica. Al roboato annuncio, dopo un lauto pasto, “Baccalà in umidooo!“, tentenniamo, ma, fedeli al motto “Mangiare per fame è da persone volgari“, ci diamo allo stoico prosieguo della pugna alimentare.
Siam qui per Vero su bianco, sottotitolo “disegni sussurati per parole su tela“: Riccardo Goretti, attore, Edoardo Nardin, disegnatore, ma non solo. Toscano il primo, rapido, smaliziato, dolcemente ruvido, d’una tempra da subito riconosciuta e apprezzata; bastardo di confine l’altro, veneto di Pordenone riparato in quel di Prato. Il palco del Sale presenta quella minuta colonnina piantata a centro scena che sembra più un dispetto agli artisti che una reale necessità architettonica: Goretti dribbla l’insidia e, giacchetta su t-shirt, siede a un tavolino, a livello platea. Una lampada, libri; poco sotto, una valigia. Nardin, physique e passo da clown-acrobata, sopra, al fianco d’un cavalletto con una risma di grandi fogli bianchi.
Serata casual: pubblico disposto come a cena, atomicamente tra tavoli di varia fattura. Goretti si dà luce. E voce.
Nardin scruta in platea. Si volta, tratteggia qualcosa.
È la scena, Arlecchino, a guardare in platea, in una mutua relazione scopica (non è una parolaccia), nell’innesco di riflessioni e rifrazioni da agire. Reading, ma non solo: Goretti è dj letterario, tra Italia d’oggi e USA primo Novecento: cerca una sintonia che qualche sopore complica un poco. Crestomazia d’umorismo esistenziale, con episodi più o meno felici (fatichiamo a capire il − moderato, ma innegabile − successo di Guido Catalano: problema nostro), per una gestione comunque convincente del discorso: su Cormac McCarthy non discutiamo, anzi.
Nardin, dal canto suo, spicca il volo, come i pennuti tratteggiati un po’ ovunque: su fogli liberi, vecchi volumi sparsi sui tavoli, il dorso delle mani di chi scrive. Ha occhi piccoli, puntuti, uno sguardo aguzzo, di chirurgica e sapiente dimestichezza col mondo, tradotta in una lineare naïveté narrativa, di laconica asciuttezza.
Si procede sino al gioco finale, interazione che, col pubblico giusto, potrebbe andare all’infinito. Si resta, invece, con una sensazione sospesa: il teatro è così, non tutti i pubblici sono uguali; neppure le sere degli artisti.
Di certo, Vero su bianco val la pena: in quanto contenitore, può ospitare qualsivoglia meraviglia; abbisogna, però, di piglio, coraggio e urgenza, nella scelta antologica (la ricerca potrebbe essere più minuziosa e sorprendente) così come nella cura dell’interazione, sia tra i due attori sia tra questi e pubblico, segmento sul quale siamo comunque fiduciosi.
Firenze ci attende fuori, neppure fredda, sciupata al punto giusto dagli addobbi natalizi. Puntuali, come la depressione.