Un nome importante, quello di Andrée Ruth Shammah, firma la regia dello spettacolo Il malato immaginario, apertura stagionale del Teatro Guglielmi di Massa. È la seconda volta che la regista porta in scena il testo molièriano, in quanto – è lei stessa a dirlo – contemporaneo, divertente, a tratti nevrotico, molto adatto per il pubblico di ieri, oggi, domani. La prima occasione in cui Shammah si è misurata con questo classico risale agli anni Ottanta e, all’epoca, la parte di Argante era di Franco Parenti, mentre Gioele Dix, oggi protagonista, recitava nel ruolo del fidanzato di Angelica, Cleante.
All’apertura del sipario si mostra una scenografia ispirata ai quadri di Francis Bacon − pittore dell’uomo moderno − assai suggestiva e senza tempo: tre lampadari sul fondo, a indicare l’opulenza della casa di Argante, al centro la poltrona rossa delle nevrosi e delle ipocondrie del malato e, agli angoli, quattro sedie nere dallo stile moderno e lineare. Siamo letteralmente catapultati in un ambiente che è metafora del cuore pulsante e in fibrillazione del protagonista, dove troneggia il carrello dei farmaci e degli spignatti medici fai-da-te. Anche i costumi, realizzati volutamente con una gamma di colori limitata e funebre (sfumature di nero, grigio, beige, porpora, rosso), decontestualizzati dal periodo storico della commedia, sono come cristallizzati e atemporali, a parte una strizzatina d’occhio alla moda fine Ottocento-inizio Novecento.
Gioele Dix-Argante e Anna Della Rosa-Tonina sono i protagonisti indiscussi di una messinscena sapientemente orchestrata e calibrata sull’indiscussa bravura di tutta la compagine attoriale. Lei porta avanti la sua partita scenica su un tipo di recitazione studiata al respiro: naturale, a tratti macchiettistica, fluida, pur con un ritmo incalzante e serrato. I suoi movimenti seguono la stessa linea interpretativa della recitazione: naturalezza e artificiosità in un perfetto e paradossale matrimonio. Lui, invece, gioca maliziosamente con l’abbattimento della quarta parete, nella ricerca di un’empatia immediata, peraltro colta sin dalle prime battute, con il pubblico in sala. Tutti gli attori, escluso il protagonista, si muovono sul palco secondo direttrici e diagonali ben precise, quasi a ricordare le pedine poste su una scacchiera. Il sottofondo sonoro, essenziale, si avvale solo di suoni puri: nessuna musica, solo piccoli accenni di flauto a scandire i movimenti degli attori.
I medici arrivisti-pedoni cadranno uno a uno grazie all’aiuto della serva fedele; l’interessata moglie-regina-Linda Gennari verrà smascherata giusto in tempo e il re-Argante subirà lo scacco matto da coloro che veramente lo amano. La serva, la figlia e il fratello lo aiuteranno infatti a trovare la giusta strada per convivere con la propria “incurabile” ipocondria: diventare medico di sé stesso. Ed è sull’immagine del protagonista, in proscenio, mentre si auto-visita con leggeri colpetti dell’indice sul petto, che si chiude una bella recita che abbraccia e congiunge, allo stesso tempo, tradizione con modernità. Una gran bella prova attoriale, una scenografia minimalista ma d’impatto, un pubblico caloroso che quasi quasi vorrebbe il bis.