Sentire applausi così sentiti e prolungati alla fine di quest’ultima impresa teatrale di Toni Servillo, in scena in prima nazionale al Teatro Grassi di Milano con un lavoro di Brigitte Jaques tratto da Elvire Jouvet 40, è un chiaro segnale che anche questa volta l’attore e regista campano ha trovato la chiave giusta per acchiappare il pubblico.
In questo Elvira, l’attore preferito da Paolo Sorrentino fa la parte di un regista teatrale (Jouvet) che, dalle prime file, osserva le prove di un pezzo del Don Giovanni di Molière, interrompendole continuamente. Le osserva assieme a noi e per un’ora e mezza: implacabile, corregge il tiro al modo di stare in scena della giovane attrice, mai contento di come lei, Claudia (la bravissima Petra Valentini), si ponga davanti al testo, insoddisfatto di come Elvira non riesca a far percepire la potenza di questo monologo. Talvolta sale anche lui sul palcoscenico e interpreta la parte della ragazza per meglio farle intendere come l’attore debba visceralmente vivere ciò che dice in scena. Di come non si debba mai essere soddisfatti del modo in cui si è recitato fino a ora. Di come gli attori debbano percepire che quando si misurano con un testo, si confrontano con un materiale poetico, che essi stessi, come dice Servillo in una recente intervista, «devono diventare poesia vivente per tendere a una incandescenza della resa interpretativa che confina con una sorta di immaterialità e che è esattamente la stessa a cui tende una partitura musicale».
Un magistrale saggio sull’attore che cattura tutto il pubblico, tenendolo appeso alle proprie maieutiche labbra. Qui Servillo è al contempo regista, attore che recita la parte del regista, e attore che interpreta la parte di chi non ha ancora capito il segreto della presenza scenica. E noi, assieme all’attrice, con un senso di assoluta incapacità a eguagliare le vette interpretative di un simile esempio, tentiamo ostinatamente di riprodurre la maestria che lui ha nel recitare, quasi come se non ci fosse un pensiero preciso, quasi fosse naturale il suo modo di pronunciare il testo, senza renderci conto che la verosimiglianza è frutto di un profondo scavo interiore. Non si deve recitare senza questa riflessione di fondo, altrimenti ripiombiamo nel teatro declamato che tanto ci appare stereotipato e non comunicativo. E neppure nella fatidica “recita naturalistica” che conduce direttamente verso le ingenuità amatoriali. La potenza del teatro è questa astrazione dissimulata con cui Servillo e i suoi attori ogni volta si ripropongono in scena, facendo uscire il pubblico con la voglia di ritornare a teatro.