È una piccola gemma, non priva d’insidie, questo Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, titolo che sembra quello d’un film di Lina Wertmüller, obliqua parabola che Gianni Celati dà alle stampe a metà anni Novanta. Protagonista della pièce, una coppia d’attori “vecchia maniera”, da compagnia di giro, la carriera congiunta che dura da, son loro a ribadirlo, quarantacinque anni: lui, Attilio Vecchiatto, artista drammatico, attore scespiriano e poeta (il volume di Celati contiene una cinquantina di sonetti attribuiti al personaggio); lei, Carlotta, moglie paziente e sfalsata, compagna d’arte e d’amore, nonostante i naturali (!?) smottamenti d’una lunga vita congiunta. Ed è un minuzioso omaggio all’arte della parola, al teatro, nell’accezione morg’hantieffiana del termine, forma espressiva residuale e ineffabile che rifugge i grandi numeri, la grande scala, distante, ma non per forza né sempre (opinioncina di chi scrive), da quel che indichiamo come spettacolo.
Si entra nella saletta Ryszard Cieslak e troviamo Claudio Morganti a far da anfitrione: in prossimità della prima fila, piccoli tavolini da bar; bevande, arachidi, ordinari generi di conforto (!) tanto diffusi nella barbara consuetudine odierna denominata apericena. Poco distante, Elena Bucci; ma in ombra, sfuggente, donnescamente ritrosa, forse già nel personaggio, come suggeriscono la stoffa luccicante del vestito blu e i lunghi guanti bianchi a fasciar mani e avambraccia. L’attore, per contro, celia coi convenuti, ne auspica la sistemazione, il silenziamento dei relativi apparecchi. Accompagna, comunque, con sorridente cortesia il misurato pigolìo degli astanti.
Il passaggio è punto accennato, impercettibile, eppure palpabile: precede il lento sfumar di luce a isolare i due lettori approssimatisi ai leggii. Inforca gli occhiali, Morganti ormai Vecchiatto, lunghi capelli raccolti a chignon, Braveheart casual vestito, per dar la stura alle pedantesche tirate dell’attore Attilio contro i mala tempora correnti, il loro chiacchiericcio rumoroso, la loro volgarità diffusa e interstiziale. Lo modera Carlotta, donna dabbene, e ragionevole, alle prese con le idiosincrasie d’un vecchio (l’etimologia anagrafica ci par evidente), ritornanti, prevedibili e che, nella puntuale circolarità, sfumano da sottoscrivibili argomenti a rincoglionite fissazioni.
Andare o no in scena, si chiedono i due, nella prospettiva d’una platea vuota, ove una sola spettatrice (munita di sporta) è sopraggiunta. Sperduti in un teatrino provinciale, residuo d’un arte che fu, reperto quasi minerale piantato nel mezzo d’un paese ora produttivo, distrutto e distratto dall’ottusa ignoranza d’un benessere facile (in vent’anni anche questo è mutato!), troppo facile. La muliebre ragionevolezza e l’inamovibile resistenza virile dan vita a un godibile duello, che Elena Bucci risolve con una recitazione minuziosa, giocata su variazioni mimiche finissime, in attrito alla crassa risolutezza di lui.
Lo spettatore è un intruso, that is the question, là dove si voglia fare teatro. Un intruso irritante, eppure irrinunciabile (a meno di non voler trarre conseguenze estreme: pensiamo a Grotowski, spirito aleggiante qui a Pontedera), polo e cartina di tornasole per quel che s’agita in scena e promana dal buio. Lo stesso buio che tutto inghiottirà, a fine recita, a fine vita, a fine tempo.
Quel buio che il teatro, il vero teatro, conosce e (quasi) racconta. Come nel caso d’una piccola gemma in uno sperduto spazio scenico di provincia.