Noi non sappiamo quale effetto sortì, nel 1896, la messinscena di Ubu roi, estemporanea pièce pseudo-storica e anti-borghese composta dal ventenne Alfred Jarry e ospitata dal Théâtre de l’Œuvre di Aurélien Lugné-Poe. Le cronache dell’epoca, scandalizzate o entusiaste, ci danno solo la sommaria descrizione di un pubblico sbigottito nel sentire il grande Firmin Gémier ripetere a ogni piè sospinto l’infantile tormentone «Merdre!». Ma soltanto i più presuntuosi storiografi pretendono di recuperare da queste tracce depositate negli archivi le ragioni che resero possibile (e dirompente) quell’evento.
Oggi invece sappiamo che uno spettacolo come Ubu roi di Roberto Latini, non scandaloso né sconvolgente, può nascere unicamente da un’idea di teatro ambiziosa e immaginifica, che si lascia felicemente prendere la mano da ogni fantasia.
In sé conta poco la storia di Padre Ubu, ufficiale di fiducia di Re Venceslao, che si lascia convincere dalla moglie a uccidere il sovrano e impadronirsi del trono di Polonia, subendo poi la vendetta del principe Bugrelao e dei suoi stessi congiurati. Non abbiamo a che fare con Ibsen né con Beckett, e non ha senso chiedere la filologica restituzione della materia testuale.
Giustamente, per Roberto Latini i dialoghi di Jarry non sono che un pretesto per la creazione di un mondo tanto rarefatto e fantascientifico da sembrare iper-razionale (non a caso le maschere e i costumi dei muti cortigiani possono ricordare ora i primati del Pianeta delle scimmie ora Yoda di Star Wars). Di più: la maggiore invenzione registica consiste nel far oscillare incessantemente il pendolo dello spettacolo tra la fesseria vernacolare e l’enfasi tragica. Verso la prima direzione tirano le performance caricaturali e animalesche degli attori, tutti ottimi: gli slanci orsini di Padre Ubu (Savino Paparella), le movenze e gli urletti isterici di Madre Ubu (Ciro Masella), la zoppia e il tacchineggiare del Capitano Bordure (Marco Jackson Vergani), per non dire delle civetterie divistiche e sconclusionate della Regina Rosmunda (Sebastian Barbalan).
Tuttavia, a dispetto dei volti pagliacceschi, dei sospensori e delle parrucche increspate, ci scopriamo a pensare che è sempre l’avidità a spiegare ogni gesto e ogni scelta (lo stesso Jarry aveva in Macbeth la sua stella polare). Ed è la messinscena a suggerirci tale riflessione, poiché nell’altro senso, quello della tragedia, spingono infiniti altri segni: coreografici, visivi (la scena nitida e quasi nosocomiale creata da Luca Baldini, con suggestive dissolvenze luminose), sonori (l’architettura musicale pensata da Gianluca Misiti abbina, o meglio fa scontrare vibrazioni elettroniche, rumori concreti e distese armonie) e letterari, questi ultimi affidati perlopiù a Latini stesso, che nelle vesti di un Pinocchio alla catena scorazza per tutto il palcoscenico, testimone oculare vicino eppure lontanissimo dall’azione, fermandosi talora per commentare la vicenda o per declamare versi shakespeariani («Scrivo Jarry – annota il regista – e penso si possa leggere Shakespeare»), a evocazione dei lirismi fuori tono e fuori squadra di Carmelo Bene.
La vertigine citazionistica non finisce qui, anzi, a cominciare dal «J’ai appris hier», memorabile incipit artaudiano che si ode all’inizio dei due tempi, si potrebbe navigare a lungo alla scoperta dei molteplici rimandi, rete sinaptica di un organismo forse troppo compiaciuto e anaffettivo (questo il difetto dello spettacolo, se difetto può dirsi).
Dopo due ore, separate da un breve intervallo, lunghi applausi sono venuti dal pubblico infreddolito della tensostruttura di Castello Pasquini: obiettivamente inaccettabile la temperatura della sala.