Pinocchio è assai più d’un semplice libro, d’un semplice caso letterario, tra i romanzi più importanti dell’Ottocento (non solo italiano); ed è più d’un semplice personaggio, d’un carattere buono per gadget o parchi dedicati (quello di Collodi è comunque un gioiellino da vedere, altro che Gardaland). Ha gli attributi potenti ed efficaci della maschera, il substrato d’inquietudine comune a tutte le vere favole, quelle che piacciono ai bimbi perché spaventano assai più di quanto non rassicuri la ricomposizione finale. E, nel corso del Novecento, l’invenzione di Collodi (caso esemplare di personaggio “superiore” al suo autore) è anche assurta ad autentico totem del teatro italiano: in primis, per l’indimenticabile versione che ne diede Carmelo Bene in varie occasioni. Lo abbiamo visto ritornare più volte in scena, pure con profitto: l’allucinata lettura del Teatro Del Carretto (2006-07), nell’immaginifico Ubu Roi di Roberto Latini, la puntuale interpretazione di Ugo Chiti e Arca Azzurra, sino al più recente contributo di Zaches Teatro, recensito non troppo tempo fa.
L’ampio arco scenico del Giglio sembra farsi chioccia per una minuta replica di sé: al centro, un più piccolo teatrino s’incastona nel maggiore, a mo’ di scatola cinese; sulla sinistra, il pianoforte elettrico rende una non ineccepibile traduzione per tastiera (la firma Giulio Luciani) dell’indimenticabile partitura di Fiorenzo Carpi per il Pinocchio filmico di Comencini. L’esecuzione strumentale ((di Maestro Salah addin Roberto Re David: nome autentico, lo assicuriamo) introduce La vera storia di Pinocchio, realizzazione interamente attribuibile a Flavio Albanese (ideatore, autore e interprete) con il supporto produttivo del Piccolo Teatro di Milano.
L’artista, giacca chiara con paillettes, si presenta da imbonitore, rivolgendosi agli spettatori e impiegando ben poco a conquistar fiducia e risate da parte d’una platea infante. Annuncia l’argomento, per poi passare a una robusta prova attoriale: s’inviluppa nel racconto, s’insinua nei personaggi, mescolando abilmente narrazione a interpretazione, ironia espositiva a tonalità patetiche. Ha i tempi elastici d’un Paolo Rossi d’antan, la fluidità caciarona d’un Bonolis scenico (non ce ne voglia: è un complimento!) nel disinvolto mescolare alto con basso, in un gioco di continui rovesciamenti eccedente la scrittura per ragazzi che dimostra un’innegabile tenuta a ogni livello. Notevole la gestione linguistica, nell’insistita e briosa alternanza di accenti, indulgendo volentieri sul napoletano quale autentica koinè comica, condito di sequenze marionettistiche riprese da Totò.
La vera storia coincide, in realtà, con la serie di avventure collodiane: ci aveva fuorviati o un poco illusi il titolo dello spettacolo in cartellone, plausibile preludio a un corso alternativo degli eventi pinocchieschi: sul sito della compagnia, la titolazione parrebbe Le avventure di Pinocchio. Raccontate da lui medesimo, il che quadrerebbe. Albanese segue, infatti, passo passo la trama originale, pure negli episodi meno celebrati, il che s’incide sulla durata complessiva, forse troppo dilatata. Nondimeno, le soluzioni teatrali non mancano: il sipario di fondo s’apre più volte su un burattino ligneo (Pinocchio, appunto), le luci punteggiano il racconto contribuendo a una sostanziale varietà (strobo, giochi d’ombra, le stelle proiettate sulle pareti della sala), così come un piano sonoro di voci off ed effetti vari.
A dominare tutto, l’attore. È lui l’innesco del racconto, a dar vita, voce e carne ai personaggi, a condurre il gioco, anche quando l’imprevisto (la struttura del teatrino che cede) sopraggiunge. Gli spettatori fanciulli seguono più che volentieri il “pifferaio magico” e, tutto sommato, non possiamo proprio dar loro torto.