Nel ridotto del Teatro Era, una tribuna di quattro fila di sedie si scopre esattamente indosso alla scena; questa è inizialmente chiusa da un fittizio sipario in tulle, che cadrà a terra subito dopo un peculiare prologo realizzato con una proiezione. È infatti una gigantesca bocca, appartenente alla Fata Turchina, a solcare la tela introducendo la storia di Pinocchio in seguito alla trasformazione da burattino a bambino.
La stanza è vuota e nuda, a parte un logoro divano e alcuni ceri in proscenio, vestita delle sole luci curate minuziosamente da Loris Giancola. Come un vagabondo adagiato a terra, Pinocchio si risveglia e, con un incalzante lamento, sputa addosso agli spettatori la sua sofferta solitudine incolpando tutti coloro che in un primo momento erano per lui una «fastidiosa presenza» e che adesso altro non sono che una «fastidiosa assenza».
Questa prima delle tre sezioni in cui possiamo suddividere Perduto Pinocchio di Virginio Liberti è quella che, a livello drammaturgico regala maggiori spunti di riflessione: è grazie alla nuance dei vocaboli, all’utilizzo di ricercati dubbi esistenziali che l’intero assetto si tinge di sfumature filosofiche, forse più adatte alla lettura che alla scena agita. Nella seconda parte, invece, si usufruisce della tecnologia per ravvivare la cornice: l’impressione è che si cerchino escamotage visivi per prolungare l’azione. Nasce così il divertente e curioso impiego degli animali proiettati sul fondale e collocati all’interno di un puzzle. Non sono canoniche bestie: tramite la tecnica del morphing vengono dotati di una bocca con cui parlano e commentano la scena, divenendo così autentici attori, doppiati da molti performer conosciuti come Ciro Masella o lo stesso capocomico della Compagnia Krypton, Giancarlo Cauteruccio nella voce-bocca di Mangiafuoco.
Pinocchio è stanco dell’attuale situazione da clochard e chiede ai suoi amici animali di ritornare entro la cornice della favola. Prende vita il ricordo della novella di Collodi sviluppata tramite gli animali che risorgono nel corpo di Pinocchio. È Tommaso Taddei a interpretare il protagonista collodiano; come preso da una specie di trance che lo costringe a non fermarsi mai. Gli animali accavallano, l’uno sull’altro, le proprie voci, la cui maggioranza è di origine toscana e lo si nota nell’avvolgere in un suono caldo la parola “babbo”.
La recitazione subisce, a livello teorico, due distinzioni nette, poco palesi, però, nella pratica. Nella prima sezione, forse a causa di una certa prosaicità, si ha una performance leggermente legata alla drammaturgia. Difatti, Taddei sembra muoversi come se gli fossero imposti suddetti gesti e siffatte movenze. Passa poi a pose sincopate e forsennate, ancora una volta spigolose, strettamente calcolate, ma più comprensibile, data la natura burattinesca dell’azione. Ci pare che questa soluzione sia più una scelta registica che una mancanza attoriale, proprio per la resa impacciata di alcuni movimenti senza scopo.
Un’ottima idea drammaturgica quella di Liberti, cui manca sia una partitura scenica sia un corpus che prosegua l’interessante parte iniziale. Il bravo e giovane Taddei sfianca il proprio fisico, lo accartoccia nella figura di un Pinocchio: perduto fra le braccia del suo burattinaio, ottimo narratore di storie ma un po’ impacciato con i fili.