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Chi tocca Pinocchio muore, e le eccezioni, nella storia dello spettacolo, sono rare (Carmelo Bene, Luigi Comencini, il Teatro Del Carretto, Matteo Garrone), a conferma che con le maschere non si scherza. Semmai, si gioca. E la creatura di Carlo Collodi è una maschera, l’ultima: lo dimostra la scena più vertiginosa dell’originale su pagina, quella dell’agnizione tra il protagonista e i burattini di Mangiafuoco. A scottarsi col soggetto, più d’uno, e ci ha sempre colpito il fatto che cadaveri eccellenti sian due toscani quali Roberto Benigni e Francesco Nuti, i cui rispettivi pinocchi hanno rappresentato il sostanziale canto del cigno in pellicola.
È un Gioco pericoloso, Pinocchio, ed è una beffarda coincidenza che la commessa per una nuova opera provenga dalla Sudcorea di Squid Game, distopica serie tv in cui un branco di emarginati viene coinvolto in una serie di giochi infantili ove l’eliminazione corrisponde alla morte. Dal Pinocchio Park di Seul è stato richiesto ad Aldo Tarabella, ex direttore artistico del Giglio (posizione vacante, non è dato sapere per quanto), un lavoro ad hoc e, nonostante i problemi connessi alla pandemia, il titolo ha trovato la strada del palcoscenico, debuttando proprio a Lucca, la città lirica più prossima a Collodi.
È una partitura variopinta quella che Tarabella (anche regista dell’allestimento) firma e consegna alle cure di Lorenzo Biagi, per condurre la fresca orchestra del cittadino Istituto Boccherini. Lo spettro di soluzioni sonore è ampio: dal sincopato jazzistico à la Gershwin alla tarantella al blues, atmosfere che uniscono lirica e musical. S’apprezza la coerenza cromatica dell’impianto scenico e dei costumi firmati da Enrico Musenich, che echeggiano il fumettistico (siamo nella città dei Comics), abbinati a una partitura mossa, fresca, ricca di guizzi e spunti dinamici. Ci sono, proviamo a leggere le intenzioni dell’autore, elementi ludici, di leggerezza calviniana, e la storia, con le logiche compressioni d’uno spettacolo sotto le due ore, è completa, le scelte d’economia drammaturgica comprensibili.
Nondimeno, al costrutto è come se mancasse davvero qualcosa, come se un anello non tenesse. Ce lo chiediamo, fuori dal foyer: da un lato, l’assenza di arie forti, quei motivi che, specie a una prima assoluta, possono essere, se non necessari, almeno utili per “portarsi a casa” un pezzo di spettacolo. In tutto questo alternarsi di metriche, timbri (appunto tecnico: l’impressione è che la batteria non sia strumento da buca… telefonatissimo il suono), in questo caleidoscopio a tema pinocchiesco è come se mancasse un elemento cruciale, in senso sia compositivo sia espressivo: la serietà. Che non è assenza di Gioco, tutt’altro: è la percezione costante di come il Gioco stesso sia sempre prossimo alla morte. E si ritorna a Squid Game, mannaggia, ma pure a Pinocchio stesso, narrazione intrisa profondamente di smarrimento, paura e morte.
Curioso, peraltro, che nelle dichiarazioni di presentazione dell’opera non un riferimento sia andato a un precedente assai glorioso dei pinocchi passati, quel capolavoro abbacinante che furono le musiche di Gaetano Giani Luporini, peraltro lucchese e in vita, nel memorabile spettacolo di Carmelo Bene del 1981. Sia chiaro: non pensiamo che fosse necessario citare quel precedente, in verbo o pentagramma, bensì, nello spremerci le meningi cercando in cosa falli quest’opera, il riferimento a quell’allestimento imprescindibile ci è sembrato il contro-esempio più chiaro, lampante, anche perché, per quanto non si trattasse certo di lirica, lo si può annoverare quale teatro musicale, al pari di praticamente tutta la produzione del salentino.
Questi i motivi che, alla fine, mettono in secondo piano le buone prove del cast: lo spiritato protagonista reso da Leonora Tess (soprano), gli eclettici baritoni Clemente Antonio Daliotti e Piero Terranova (rispettivamente Geppetto e Melampo, l’uno, Mastro Ciliegia, Mangiafuoco e Domatore del circo, l’altro), il tenore Giampaolo Franconi un po’ Grillo e un po’ Lucignolo, Sara Rocchi (Gatto, mezzosoprano), Consuelo Gilardoni (Volpe, soprano), Silvia Lee (Fata, soprano). Artisti che presumiamo bravi (non li conosciamo, nostra culpa), chiamati più a una prova d’interpretazione scenica che canora, complice il netto sbilanciamento del dettato verso la declamazione. E, con tali premesse, va da sé che, in una prima assoluta, l’orecchio e l’occhio critico siano portati a valutare e pesare la tenuta della scrittura, con tutti i rischi del caso di un ascolto unico: la storia della lirica è piena di prime non entusiasmanti per titoli divenuti in seguito memorabili. Non abbiamo visto un brutto lavoro (riteniamo la bruttezza, comunque, valore estetico dignitosissimo), saremmo disonesti a scriverlo, ma la concreta sensazione è di una sin troppo eccessiva levità, col rischio di rendere inerte l’intero costrutto, all’estremo, ed esiziale, limite dell’impalpabilità.