Chi bazzica teatri e teatranti sa che Harold Pinter è autore frequentatissimo negli ultimi decenni (sulle molteplici ragioni di questa fortuna scenica non è qui il caso di argomentare); e sa anche che tra i testi del Premio Nobel londinese Il calapranzi (cioè “montavivande”, traduzione letterale dell’originale The Dumb Waiter, che però perde la doppiezza semantica dell’inglese) è uno dei titoli più gettonati. Compagnie professionistiche e amatoriali vi si cimentano con regolarità, facendo assegnamento sulla sua semplicità esecutiva: sono sufficienti due attori, una scenografia essenziale (meglio ancora se l’ambiente è squallido, poco illuminato e claustrofobico) e una recitazione che può anche essere imprecisa, dovendo restituire un senso di inerzia, di alienazione, di squilibrio.
Propriamente, si tratta di un breve atto unico scritto nel 1957, con caratteristiche seminali rispetto alla successiva produzione pinteriana, etichettata con la definizione di “teatro della minaccia” (lo stesso sottoinsieme in cui potremmo inserire Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee, e che comunque, per la frammentarietà sincopata dei dialoghi e l’atmosfera ansiogena, non è lontano dalla narrativa di Chandler e Hammett riversatasi nel cinema noir americano degli anni Quaranta).
Tutto sommato, allora, sembrerebbe difficile uscire stupiti da una rappresentazione del Calapranzi. Capita invece che una compagnia di giovani performer, in un teatro sicuramente periferico e di pochi mezzi qual è il Nuovo Teatro delle Commedie di Livorno, riesca a mettere in scena qualcosa di inconsueto e, per certi versi, memorabile.
L’ambigua situazione in cui si trovano i due sicari Ben e Gus, qui appunto interpretati da due donne (rispettivamente Roberta Lidia De Stefano e Claudia Caldarano, guidate da Mila Vanzini), assume connotati nuovi, interessanti. I due (anzi, le due) aspettano l’incarico di uccidere qualcuno, nel chiuso di un sotterraneo, a far da sciacquini per ciò che avviene al piano di sopra (dove si intuisce essere un ristorante in malora, forse, dal cui calapranzi un capo che non si vede mai ordina pietanze ormai esaurite). Nell’attesa parlano, discutono; di niente, cioè di sciocchezze, eppure si avverte qualcosa di irrisolto, carico di tensione: l’irritabilità di Ben, le ingenue domande di Gus, l’imbarazzo e l’agitazione serpeggianti. «Tutta la pièce è permeata dal senso ineludibile di una violenza e di una minaccia incombenti. Il male esiste, sembra essere governato da qualcuno sopra di noi, ma in realtà è annidato in noi stessi e non accetta domande né rilascia risposte: si impone e colpisce», così si legge nelle note di regia, ed è proprio ciò che la messinscena restituisce. I due lettini da ospedale a far da arredo, il sottile cordone quadrangolare che restringe ulteriormente l’ambiente (come fosse una scena del crimine?), l’uso del live looping in scena, che fa risuonare una partitura di intime vibrazioni o ricordi agghiaccianti: scelte semplici, ma efficacissime. Così come il finale lirico e metaforico (meglio non svelarlo), che fa emergere anche le notevoli doti canore della De Stefano e quelle coreutiche della Caldarano.
Lo spettacolo dura poco più di un’ora, e si fa guardare dall’inizio alla fine con crescente curiosità.