Porno e poetica. Termini grumosi, stratificati, ciascuno a suo modo in grado d’aprir feritoie su mondi semantici differenti pur non di necessità agli antipodi. Tutt’altro. Non si pensi alla pornografia, però, discorrendo di porno: non del ginnico esercizio pro-masturbatorio/eccitativo dell’ormai reperibilissimo e maggioritario comparto web; quello è sempre umanissimo e banale desiderio, più o meno estremo, sollazzante, ma sempre e comunque umano. Non v’è porno in Rocco (né ai dintorni dei di lui fratelli), ma volontà di potenzina: non eccesso del desiderio, delirio inorganico, annichilimento/dissoluzione del soggetto in favore della macchina, ma il trionfo illusorio d’un io affermato a suon di pisellate; che noia che barba che noia, (ec)citiamo una grande attrice (non è ironia) del Novecento. Per paradosso, è poetica la parola più abbordabile, nonostante le insidie d’un lemma a fondere il fare dell’etimo greco alla dimensione dichiarativa assunta nel Novecento.
La cupa, sintetica versione di Gloria (Van Morrison filtrato da Patti Smith) permea percussiva il nitore del caveau presso lo spazio performatico dello Scompiglio: la trasparenza opalescente d’uno schermo esteso al boccascena ci separa dall’area ove si svilupperà una sequenza di azioni a due per esplorare, si scrive, “la fluidità della sessualità”, “estasi, ex-stasi, qualcosa che porta fuori e dentro di sé”, financo il “desiderio, la sua forza politica che spezza ogni pretesa di normalità. Mobile, instabile, metamorfico e nomade; indeterminato, indeterminabile, non catalogabile”.
E da un catalogo si parte: l’ampio velo rilancia in proiezione reiterata didascalie quasi brechtiane, termini (non troppo aggiornati) relativi al mondo del porno. Il loop visuale echeggia il sonoro, in una coazione a ripetere che è tratto cruciale dell’argomento dichiarato. Entrano le due autrici performer (Titta Cosetta Raccagni e Barbara Stimoli), dandosi a una danza lattiginosa, densa, come di bestie che lascian tracce di schiuma nel passare. Vestono rosso e nero. Si denudano. Lo schermo ospita la proiezione dall’alto di quanto intravediamo nella nebbia cagliata creando un suggestivo cumulo di segni, costringendo alla scelta di quale sguardo seguire. I corpi ormai sgombri d’indumenti s’approssimano: tutto è dominato da una plasticità estetizzante, cui contribuisce l’algida illuminazione scultorea. V’è bellezza, non desiderio: sentiamo la noia (matrice imprescindibile del porno), non lo struggersi/distruggersi dello struggimento, l’estenuato e soprano approdo a un au-delà della morale. Pure bello, pure troppo. Non urgente né ineluttabile. Superfluo.
Affiora, nel cereo languore di queste figure in con-fusione, un che di gratuito: non la gratuità annoiata e sovrana del porno, non l’afrore slabbrato di merda e liquami delle deliranti visioni sadiane. Sono, questi, corpi ripuliti e inodori, messi in posa, omogeneizzati a una scena pettinata che nulla spartisce né col porno né con la pornopoetica cui ardirebbe riferirsi. Tutto laccato, in ordine: un porno finto, “per famiglie” o, meglio, l’idea che una parrucchiera potrebbe avere di esso (si passi l’immagine, letteraria: conosciamo parrucchiere che han gran dimestichezza col porno, pure in senso filosofico).
Sfumata la performance, nel consumarsi del rito plaudente, ci alziamo; un’incongrua sazietà ci pervade: non il placato appetito da grande abbuffata, ma la sensazione d’un pasto di routine, ancorché velleitario, e che in fretta dimenticheremo.