«La mamma sta tornando, mio povero orfanello, non si sa come o quando, col sole o con l’ombrello…»
La ninnananna dolcemente intonata da Viviana Marino, lungo abito di velluto scuro e chitarra, riempie il piccolo teatro di Buti e introduce l’ultimo lavoro di Dario Marconcini e Stefano Geraci.
Il dramaturg affida a Marconcini, Giovanna Daddi ed Emanuele Carucci Viterbi il testo scritto nel 1974 dal drammaturgo francese di origine ebraica Jean-Claude Grumberg, nella traduzione di Giacoma Limentani. Un libricino minuto e prezioso, in Italia non troppo conosciuto e ancor meno rappresentato, che ben si confà alla visione che Marconcini ha per Miniature, stagione forse non ricca di titoli ma imperterrita e votata alla ricerca e alla novità: «è come se da affreschi e grandi tele ci fossimo raccolti su noi stessi e fossimo diventati dei miniaturisti».
Un racconto onirico dove immaginazione e ricordi, speranze e dolore, si sovrappongono e intrecciano sottili e tenaci legami.
Marconcini, il tono cocciuto di un eterno bambino ormai sessantaduenne, esprime un desiderio: vuole passare una domenica con la sua mamma, ma una domenica di quelle buone, in cui la mamma è di buon umore e buono è il pranzo preso in rosticceria. Inaspettatamente, è proprio Dio a rispondere e assecondare le sue parole, negli scuri abiti di un accigliato e severo Carucci Viterbi.
La mise en scène è solo apparentemente statica. Nessuno corre o si dimena o grida, anzi: mentre Daddi-madre non scenderà mai dalla sua sedia a dondolo, Marconcini e Carucci Viterbi si muoveranno senza fretta, parleranno con i piedi ben saldi e rivolti verso la platea; tuttavia, la molteplicità dei piani narrativi e l’irruenza di Marino (la cantante), ora con la sola voce ora danzando con Marconcini, a infrangere i quadri vagamente caravaggeschi che si avvicendano sul palco, contribuiscono a manifestare l’intrinseco dinamismo e la complessità dell’opera. Saranno i lievi cambi d’abito di Carucci Viterbi, prima nelle vesti di Dio, poi di anestesista, poi di direttore della casa di riposo e infine di padre, a disegnare, seppur con tratto lieve, i confini tra le diverse dimensioni. L’hic et nunc, Marconcini che faticosamente si scuote dall’anestesia di un intervento, e le surreali visioni con cui interagisce, dai dialoghi con Dio, la ricerca nei ricordi e nell’immaginazione della giusta domenica, alle discussioni con l’invadente direttore della casa di riposo che ospita la madre e, infine, al toccante e pacificatore dialogo con il padre mai conosciuto.
Un autore, un testo, uno spettacolo che sembrerebbero tradurre in pratica la leggerezza tratteggiata da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane nel 1988. L’orrore dell’Olocausto, presente tanto nell’opera teatrale quanto nel passato di Grumberg (il padre, sarto ebreo, morì in un campo di sterminio) non è mai un clamore scomposto ma affiora, velenoso, negli sguardi, sottinteso alle parole, nelle ansie e nella solitudine, nella ripetitiva domanda del figlio alla madre – prima, ma com’erano le cose prima che tutto fosse contaminato da questo mostruoso ricordo. L’ora scarsa di messinscena si conclude con un intimo e patetico dialogo padre-figlio. L’uomo, petto nudo e volto speranzoso, chiede al discendente se il sacrificio della sua generazione sia servito, se nel mondo siano cessate le discriminazioni, i nazionalismi, se gli uomini ora siano liberi. Marconcini risponde di sì. Qualcuno tra il pubblico ride, ma non c’è comicità, solo l’amara ironia di chi mette in guardia un mondo folle.