In un tempo affollato, in ambito musicale, da cover e tribute band, già da parecchio assistiamo, anche in teatro, alla perniciosa tendenza al tributo. Sul termine potremmo decollare verso lidi interpretativi inediti e suggestivi, attratti da ammiccanti e saporite analogie con pratiche di prelievo coatto o aderenti al senso di volontario omaggio a qualcosa o qualcuno che susciti particolare ammirazione.
Quanto visto dalla platea del teatro ove il nostro corpo arlecchino giacque dimidia lo sguardo tra impressione e riflessione: se il giudizio sul remake scenico di Qualcuno volò sul nido del cuculo dovesse limitarsi agli aspetti meramente tecnici, ci sarebbe abbastanza da salvare: dalle capacità attoriali della compagine al gusto scenografico e luministico. Il problema sorge, anzi si erge quasi maestoso se si va a indagare il perché dell’operazione condotta dal regista Alessandro Gassmann. Plausibile (nell’originario senso di “suscettibile d’applauso”) un intento economico, peraltro ottimamente perseguito visto il successo di cassetta, abbinato a un intento filantropico nei confronti di attori capaci ma da diversi anni eclissatisi dalle scene. Meno intuibile è il fine artistico, perché, se da un lato Gassmann dichiara di essersi basato sulla drammaturgia che, nel 1963, Dale Wassermann distillò dal romanzo di Ken Kesey, l’impressione generale è quella di una trasposizione diegeticamente assai fedele, se non pedissequa, del ben più celebre film del 1975: insomma, procedendo sulla falsariga della nostra iniziale riflessione di stampo musicale, si potrebbe parlare di un tentativo di tributo sfumato in una cover maccheronica, in cui all’antieroe McMurphy si sostituisce il guappo partenopeo dal cuore tenero Dario Danise (Daniele Russo), circondato da una pletora di casi umani che, se nel film sostenevano e contrappuntavano come un coro greco il canto del tragos Jack Nicholson, qui s’esprimono in un macchiettismo regionalistico che svilisce il loro ruolo e mina sia l’impianto sia il messaggio.
Dal palco non s’irradia un venefico eppur salvifico miasma d’ospedale, ma, tutt’al più, un rassicurante profumo di borotalco che copre tutto di una patina bianca e livellante: Gassmann sembra voler imboccare il pubblico con un omogeneizzato concettuale che rivela la sua sfiducia nella dentatura esegetica italica. La pappa approntata a questa platea di palati abboccati è un corposo merendone di due ore e mezza dal sapore nazional-popolare: la collocazione cronologica al 1982 (con tanto di proiezione in proscenio del gol e dell’esultanza di Tardelli ai mondiali) non si giustifica con la riflessione sul mondo degli ospedali psichiatrici, dato che la legge Basaglia è del 1978.
Il fiero pasto si chiude con una portata che fa grondare acquolina dalle fauci zannesche di più d’un Arlecchino in sala: la liberazione del “grande capo”, affidata nel film allo sfondamento di una vetrata col ponderoso lavabo usato per gli elettroshock, è qui veicolata dal lancio verso il pubblico (tranquilli: è un’altra videoproiezione!) del simulacro della Beata Virgo che, sino ad allora, aveva guardato, silente e materna, le vicissitudini dei poveri pazzarielli (parola di Dario Danise, amen).
È da escludere che Gassmann, per questa data in terra di Toscana ‒ dove il culto della dissacrazione orale passa anche per l’uso ieroclastico di termini afferenti alla liturgia; vedansi chicche quali moccolo e sagrato – abbia considerato che l’espressione tirar madonne è uno dei tanti fiori d’eloquio che certo non mancano all’occhiello d’uno spettatore arlecchino.