Assistendo alla rappresentazione di Adulto, lo spettacolo che la compagnia milanese Phoebe Zeitgeist ha proposto nella fascinosa caverna del Teatro Rossi di Pisa, un’immagine mi si è formata nella mente, divenuta più netta via via che i minuti passavano (fino ad arrivare a 75). Più che un’immagine, si trattava della somma di molte sequenze cinematografiche oppure tratte dall’oceano della serialità televisiva americana (ho confusamente ricordato certe cose di Lynch, di Cassavetes, ma anche di Friends e Sex & the city …).
La scena mosaicata da queste tessere è la seguente: ci troviamo in uno spazio teatrale off, ovvero underground, o “di fortuna”, come si usa dire con meno pretese (può essere un garage riadattato alla bisogna, una chiesetta sconsacrata o un gelido teatrino di periferia occupato …). Per molti minuti, su un palcoscenico spoglio (per mancanza di mezzi), un giovane attore, solitamente di belle speranze, dà vita a un lungo monologo, mentre si dimena, si accalora, fa sfoggio di tutta l’intensità che il suo corpo riesce a emanare, provando innumerevoli voci e pose, senza mai trovare quelle in grado di mettere a fuoco il personaggio, di inchiodarlo a una caratteristica. Infine, appena protetto dalla penombra, si denuda, assecondando un testo dai contenuti marcatamente erotici. Di fronte a lui si trova un pubblico più o meno imbarazzato, composto da amici e conoscenti che hanno avuto la compiacenza di presenziare (costretti poi a blandire le velleità artistiche dell’attore o del regista) e uno sparuto gruppetto di intellettuali dalla giacca stropicciata (disposti poi a dialogare, fumando trinciato nel dopo spettacolo, sulla nozione brechtiana di Verfremdung o sulla epoché di Husserl).
Quello descritto è un vero e proprio cliché della narrazione filmica americana, il più delle volte declinato in chiave comica: le battutine sotto voce, lo sbadiglio del vicino di posto, la grossolana topica dell’incompetente spettatore che scambia, che so?, Michael Fassbender per Rainer Fassbinder, o viceversa. Non si discosta troppo dalla serata del Teatro Rossi di martedì 7 aprile.
Per fare un po’ di nomi, Dario Muratore è in questo caso l’impavido (ma solido) attore che si dimena, dandosi luce e suoni da solo, grazie a tubi al neon, radioline e mangianastri (usati per riprodurre voci o per effetti di amplificazione distorta). Regista dell’operazione, nonché autore delle interminabili note di regia, è Giuseppe Isgrò. La componente testuale proviene per due terzi da Pier Paolo Pasolini e per un terzo da Elsa Morante: di quest’ultima sono scelti alcuni passaggi di Aracoeli, estenuante narrazione delle sofferenze del protagonista Manuelito, che cerca disperatamente di comprendere, attraverso un viaggio nella memoria, le cause della propria bisognosa solitudine.
Di Pasolini sono invece drammatizzate le circa trenta pagine di Petrolio conosciute come Il pratone della Casilina (l’appunto 55, per esser precisi), pagine che si possono amare oppure detestare per lo stesso motivo (chi scrive propende per la seconda possibilità): la pletorica esposizione di un apprendistato omosessuale (di Carlo, l’antieroe sdoppiato del romanzo-poema), tenero, violento e orgiastico allo stesso tempo. Qualora servisse un esempio: «così, già un po’ molle, sembrava ancora più enorme; e poi c’era il lucido del seme e della saliva, che davano al pimento della sua pelle una specie di lividore bestiale e un po’ osceno: e tuttavia, quell’unto aveva qualcosa di sacro».
Che freddo! Che freddo!