È impegnativo, forse troppo, ma anche no, il teatro di Roberto Latini, fatto di scelte impossibili, sfide inesorabili e definitive: alla scena, ossia alla vita.
Alla scena, anziché alla vita, con la scena come unica vita plausibile.
È impegnativo, da un lato, giacché per seguirne le tracce intellettuali è necessario dotarsi d’un vasto repertorio di suggestioni, esperienze, autori, un dedalo infinito di rimandi tanto fini quanto necessari. Ma anche no, perché forse la strategia (anzi: la maniera) più sana di sentire quel teatro è abdicare: al pensiero, all’analisi; abbandonarsi al rollio del ritmo, della pulsazione musicale. Al Gioco. Accomodarsi scomodamente sull’ottovolante di opere vorticose, talvolta troppo opulente (pensiamo a Fortinbrasmaschine), che rischiano di lasciarci disorientati, forse perché incapaci a disorientarci.
Il Fabbrichino accoglie noi spettatori, tutti i volti coperti da maschere: teatro nel teatro, col teatro. Ai capi del lungo tavolo centrale, presenze bizzarre: un’attrice vestita da Wonder Woman, un attore nei panni di Superman. Non sono i due supereroi, bensì, sfacciatamente, interpreti alle prese con personaggi sghembi e, soprattutto, un testo ineffabile, densissimo, tarlato di rimandi, sia cólti sia pop, continue vie di fuga, inneschi esplosivi.
Heiner Müller scrive Quartett attraverso i decenni, dai Cinquanta agli Ottanta, traendone un dispositivo teatrale post-modernissimo, aggrumando letteratura e drammaturgia in una dimensione senza tempo né luogo, se non il qui e ora del teatro. È il confronto posteriore-postumo tra la marchesa di Merteuil e il conte di Valmont, protagonisti di quel capolavoro paradossale che fu Les liaisons dangereuses. Memoria e sesso, noia e teatro si snodano sdoppiati in un dialogo tra presenze che sfuggono senza requie, si sovrastano, si sostanziano in ciò che sono destinati a essere: personaggi, non persone, là dove la recita è (ed è maggiore della) vita.
S’intende come Müller addivenga autore ideale alla poetica di Latini, il quale, toltosi di scena, setta una macchina attoriale che è un autentico tritacarne per i corpi e le voci di Valentina Banci e Fulvio Cauteruccio. Gioco massimo, il testo si dissolve e specchia tra musica, gesto, i personaggi liquefatti da un flusso d’incoscienza lirico, avvolgente (pensiamo a I giganti della montagna, di Latini ovviamente): lui diventa lei, e viceversa (ecco il quartetto), tra continui e ferocissimi scoppi, ribaltamenti, concretizzati dalla lunga lastra del tavolo divenuta oscillante altalena.
Inutile tentar di stare al passo d’un testo scientemente fluviale, nella «follia sottocontrollo», ideale scespiriano imbevuto di Novecento mitteleuropeo: lasciar e lasciarsi andare, arrendersi per non soccombere, soccombere come forma di paradossale, ma inessenziale, vittoria.
Da parte loro, gli attori sono bimbi in un parco giochi: dando fondo a ogni risorsa disponibile, vocale e fisica, mutuano timbri, posture, soluzioni, microfoni, in un saggio completo dei rispettivi campionari espressivi. Particolarmente a suo agio Cauteruccio: dosa sapiente spada e fioretto, gigioneria e controllo. Ed è forse un valore aggiunto, per un lavoro che richiederebbe visioni reiterate, reiterate esposizioni per immergervisi più efficacemente, che il Latini attore, presenza tra le più potenti del nostro teatro, abbia lasciato il campo a due colleghi, declinati al proprio disegno, ma pure lasciati liberi di contribuirvi in creativa armonia: avrebbe potuto far da solo, ha, forse, “resistito”.
«Recitare? Che altro si può fare?»
Domanda residua, che è già risposta. Ed è già, ed è sempre stata, tutto.
Sfiliamo la maschera, non la sua resistenza sudata sul viso: applaudiamo.