Ad appena due giorni dall’allerta alluvione, lambire il versante nord-est di Pisa nel serotino buio autunnale ha già di per sé un che d’inquietante. Non che la zona, in altri contesti climatici, sia più amena, anzi; ma superare incolumi i 6-autovelox-6-di-Zambra posti a rimedio della strada killer (già, è l’asfalto a stirar i pedoni…) è niente rispetto all’arrivo presso La Città del Teatro, a Cascina.
La struttura, da sempre, somiglia a un labirinto tridimensionale: cemento e vetrate, sale e scalini, un sonnolente colosso sul punto di destarsi a divorar i malcapitati inquilini. Adesso, la sensazione è quella d’un abbandono quasi metafisico: le crepature d’intonaco, l’alluminio scrostato degli infissi, la desolazione del parcheggio semi-vuoto danno allo spazio un’aria tra il dimesso e lo spettrale, come in certi racconti di Poe, o Lovecraft.
Tutto buio. E vuoto. E intriso di pioggia, d’umido, in una solitudine guasta, malconcia. Neppure la porta sembra volersi aprire: si ha l’aria di trovarci in un film di Polanski. Entriamo: nessuno. Bar vuoto, incustodito: potremmo pure farci un caffè da soli.
In biglietteria, una fanciulla gentile, sparuta quanto sorridente: ci chiediamo chi sarà, tra noi e lei, a morire prima, quando sopraggiungeranno gli zombie. Arriva, invece, qualche altro volenteroso spettatore, a ridosso della recita di Quin, motivo per cui siamo qua.
Valentina Bischi è potente, sinuosa, metamorfica, dotata d’un magnetismo che ci pare ancora da esplorare compiutamente. Si sdoppia in un’allucinata storia di bellezza, provincialismo e delitto: è l’avvenente Miss che dal paesello fugge per inseguire fama e paillettes, ma pure l’altra, la Marcia-In-Fa, contro(disin)canto tragico a punteggiare il discorso della fanciulla tarlandolo di dubbi, di dolorosa saggezza, e d’una verità che solo alla fine potremo scoprire. In scena, l’attrice, poco altro: sulla destra, un’autentica matrioska, rossa (del resto, l’altra è una donna russa); un piano inclinato, di legno verdastro, centrale; una sorta di specchio in frantumi, poco oltre.
Tutto coagula, s’avviluppa attorno all’interpretazione: inizio da carillon umano, per poi sfruttare a fondo la drammaturgia dell’autrice e regista Laura Fatini, spartito ricco di variazioni ritmiche e timbriche, di passaggi dissonanti, un vero “spasso” per chiunque abbia il desiderio di cimentar le proprie risorse espressive. Non si tratta, però, di sterile virtuosismo: le piegature della recitazione, ora tra il frivolo e il sentimentale, ora intrise d’un rassegnato cinismo, sono sempre coerenti con lo svolgimento della vicenda, i cui limiti ci sembrano annidiati in un certo moralismo, difficile da eludere, ma non per questo passabile sotto silenzio. Che la carriera da bella sia ricca di insidie è risaputo, ma, forse, lo schema che vede nella fanciulla (soltanto) una vittima ci pare semplicistico, giacché è comprovato come l’adesione a un universo di violento sfruttamento sia, non di rado, condiviso dalle stesse “prede”. Di buono c’è che l’allestimento non resta incagliato nel dilemma etico, risolvendo in un finale abbacinato, col pubblico interdetto a chiedersi se davvero la recita sia conclusa, prima di prorompere in un applauso convinto.
Sollevati per l’incolumità preservata, torniamo a casa con qualche pensiero: perché programmare un titolo in ritardo rispetto alla presentazione del cartellone, nascondendolo a stampa (nessun comunicato ci è giunto) e pubblico? Perché, sul sito, parlare esplicitamente di residenza, cosa confermata da giornali locali ed evento Facebook divulgato dal teatro [alleghiamo screenshot, non si sa mai, N.d.R.), mutuando poi in Residenze e collaborazioni (sezione che, peraltro, contiene solo questo lavoro), quando l’allestimento debuttò nel 2017?
Misteri, ancora misteri, a coronare una serata che, anche per questo, non dimenticheremo.