Mettere in scena Ragazzi di vita, debutto narrativo di un Pasolini appena giunto a Roma (fine anni Quaranta), non è impresa semplice. Nonostante l’adattamento a cura di Emanuele Trevi, l’impressione, francamente, è di un’operazione non del tutto riuscita. A prescindere dai calorosi applausi di un Piccolo gremito, premio per una certa piacevolezza dello spettacolo, oltre all’innegabile affiatamento del gruppo di giovani diretti da Massimo Popolizio. La sensazione d’incompiutezza è la medesima avvertita a Roma, nel 2016, per la prima nazionale.
Il testo del romanzo, non neorealista ma rielaborazione poetica del parlato romanesco (un’operazione simile è quella che Giovanni Testori, nello stesso periodo, applica al milanese), viene declinato in una sorta di musical non paragonabile alla radicale trasformazione del linguaggio implicita all’opera originaria. L’operazione del romanzo era dirompente, disturbante negli anni di pubblicazione: riportarla in scena nel 2016, con dei giovani nella stereotipata parte dei borgatari, è soluzione facile quanto inefficace.
Non si risparmiano, sotto lo sguardo straniero dell’alter ego pasoliniano interpretato da Lino Guanciale, gli interpreti, impegnati a tirar fuori i tipi umani precedenti l’omologazione, ma la sensazione è da involontario telefilm a episodi, sin dalla rondine salvata che fa da contrappasso alla morte finale di Genesio, non salvato dal Riccetto. Per non parlare del furto in tram a ritmo di danza; il litigio al cinema mentre sullo schermo passa un kolossal in costume; la parodia del frocio che pare tratto da un B movie; l’Aprilia rubata che, alla fine, si sfracella con tanto di piume d’oca volteggianti; la parentesi agostana a Lido di Ostia con la Nadia a soddisfare i coatti; infine, la scena dei cani antropomorfizzati che si sbranano incitati dai padroni burini. Difficilmente Pasolini avrebbe potuto gradire consimili parodie, remote dai propri fini estetici.
Certo, occorre tradire il testo, reinventarne la lettura, per renderlo percepibile in scena, adesso. Vale per Pasolini, come per ogni classico, da Omero a Shakespeare. Proporli senza adeguate ricalibrature teatrali serve poco o nulla, ma il tentativo di rendere “piacevole” il risultato finale, a mo’ di musical, non rende onore al testo sorgente.
Abbiamo a che fare con un sistema che ha sacrificato dignità e umanità in favore di denaro e apparenza. Le ragioni, politiche ed estetiche, di Pasolini si fondavano sulla necessità di smascherare il genocidio culturale che investiva l’Italia di quegli anni, evidenziando la mutazione antropologica che altri non avvertivano minimamente. Egli stesso, che aveva scritto Ragazzi di vita appena dopo la radiazione dal PCI e il processo per oltraggio al pudore, scriveva sui giovani di buona famiglia: «Vi ritroverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita, schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie. La libertà sessuale che vi ha investiti anziché darvi leggerezza e felicità vi ha resi infelici e chiusi e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi». Come ricordava lo studioso Gianfranco Contini, l’adozione del romanesco (idioma estraneo a Pasolini, bolognese d’origine friulana) è «un’imperterrita dichiarazione d’amore» nei confronti del mondo reale, antitetica e in profondo dissenso contro «l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso».
Ecco, forse, quel che manca al lavoro diretto da Popolizio: la capacità di rievocare uno sguardo sui ragazzi di vita da cui origini un metalinguaggio con cui raccontare il mondo, la sua mutazione; ciò che Pasolini avrebbe poi ulteriormente dilatato nella successiva, mirabile produzione cinematografica.