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Vite travagliate

Sguardazzo/recensione di "Ragazzi di vita"

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Cosa: Ragazzi di vita
Chi: Massimo Popolizio, Emanuele Trevi, Lino Guanciale
Dove: Milano, Piccolo Teatro Strehler
Quando: 25/01/2019
Per quanto: minuti

Mettere in scena Ragazzi di vita, debutto narrativo di un Pasolini appena giunto a Roma (fine anni Quaranta), non è impresa semplice. Nonostante l’adattamento a cura di Emanuele Trevi, l’impressione, francamente, è di un’operazione non del tutto riuscita. A prescindere dai calorosi applausi di un Piccolo gremito, premio per una certa piacevolezza dello spettacolo, oltre all’innegabile affiatamento del gruppo di giovani diretti da Massimo Popolizio. La sensazione d’incompiutezza è la medesima avvertita a Roma, nel 2016, per la prima nazionale.

Il testo del romanzo, non neorealista ma rielaborazione poetica del parlato romanesco (un’operazione simile è quella che Giovanni Testori, nello stesso periodo, applica al milanese), viene declinato in una sorta di musical non paragonabile alla radicale trasformazione del linguaggio implicita all’opera originaria. L’operazione del romanzo era dirompente, disturbante negli anni di pubblicazione: riportarla in scena nel 2016, con dei giovani nella stereotipata parte dei borgatari, è soluzione facile quanto inefficace.

Non si risparmiano, sotto lo sguardo straniero dell’alter ego pasoliniano interpretato da Lino Guanciale, gli interpreti, impegnati a tirar fuori i tipi umani precedenti l’omologazione, ma la sensazione è da involontario telefilm a episodi, sin dalla rondine salvata che fa da contrappasso alla morte finale di Genesio, non salvato dal Riccetto. Per non parlare del furto in tram a ritmo di danza; il litigio al cinema mentre sullo schermo passa un kolossal in costume; la parodia del frocio che pare tratto da un B movie; l’Aprilia rubata che, alla fine, si sfracella con tanto di piume d’oca volteggianti; la parentesi agostana a Lido di Ostia con la Nadia a soddisfare i coatti; infine, la scena dei cani antropomorfizzati che si sbranano incitati dai padroni burini. Difficilmente Pasolini avrebbe potuto gradire consimili parodie, remote dai propri fini estetici.

Certo, occorre tradire il testo, reinventarne la lettura, per renderlo percepibile in scena, adesso. Vale per Pasolini, come per ogni classico, da Omero a Shakespeare. Proporli senza adeguate ricalibrature teatrali serve poco o nulla, ma il tentativo di rendere “piacevole” il risultato finale, a mo’ di musical, non rende onore al testo sorgente.

Abbiamo a che fare con un sistema che ha sacrificato dignità e umanità in favore di denaro e apparenza. Le ragioni, politiche ed estetiche, di Pasolini si fondavano sulla necessità di smascherare il genocidio culturale che investiva l’Italia di quegli anni, evidenziando la mutazione antropologica che altri non avvertivano minimamente. Egli stesso, che aveva scritto Ragazzi di vita appena dopo la radiazione dal PCI e il processo per oltraggio al pudore, scriveva sui giovani di buona famiglia: «Vi ritroverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita, schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie. La libertà sessuale che vi ha investiti anziché darvi leggerezza e felicità vi ha resi infelici e chiusi e di conseguenza stupidamente presuntuosi e aggressivi». Come ricordava lo studioso Gianfranco Contini, l’adozione del romanesco (idioma estraneo a Pasolini, bolognese d’origine friulana) è «un’imperterrita dichiarazione d’amore» nei confronti del mondo reale, antitetica e in profondo dissenso contro «l’estetismo novecentesco, intimistico e para-religioso».

Ecco, forse, quel che manca al lavoro diretto da Popolizio: la capacità di rievocare uno sguardo sui ragazzi di vita da cui origini un metalinguaggio con cui raccontare il mondo, la sua mutazione; ciò che Pasolini avrebbe poi ulteriormente dilatato nella successiva, mirabile produzione cinematografica.

VERDETTAZZO

Perché: Sì, oppure no
Se fosse... un intervento a un convegno sull'Italia del secondo dopoguerra sarebbe... cantato e ballato

Locandina dello spettacolo



Titolo: Ragazzi di vita

di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale
e Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele LisiPietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic GrecoFrancesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti  
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
canto Francesca Della Monica
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
assistente alla regia Giacomo Bisordi
produzione Teatro di Roma


Dal romanzo che nel 1955 diede scandalo con le sue storie di povertà e disperazione, Massimo Popolizio dirige Lino Guanciale e un folto gruppo di giovani attori (addirittura diciotto interpreti), su drammaturgia di Emanuele Trevi, dando vita ad un universo di fibrillazioni e vitalità anarchiche. Ragazzi di vita, l’esordio narrativo di Pier Paolo Pasolini, apre la Stagione del Teatro Argentina, in prima nazionaledal 26 ottobre al 20 novembre. Una produzione Teatro di Roma che chiude l’anno pasoliniano con la messa in scena del primo romanzo del “poeta corsaro”, edito per Garzanti, che gli valse un processo e il ruolo di provocatore della società perbenista. Il Riccetto, Agnolo, il Begalone, Alvaro, e ancora il Caciotta, lo Spudorato, Amerigo: sono alcuni dei ragazzi delle borgate di periferia che parlano in romanesco e trascorrono le loro giornate alla ricerca di qualche lira e nuovi passatempi. Sono i “ragazzi” di Pasolini nati orfani d’innocenza che agguantano la vita a piene mani, riversando per le strade le loro vitalità emarginate. «Libero dalle costrizioni di una vera e propria trama, in bilico tra il romanzo e la raccolta di racconti indipendenti l’uno dall’altro, il testo sembra consistere in una serie di scene nelle quali il senso del comico e quello del tragico non si oppongono ma si trasformano – annotaEmanuele Trevi, che ha curato la drammaturgia dello spettacolo – In queste scene prevalgono una marcata gestualità e il parlato romanesco, o meglio quella singolare invenzione verbale, di gusto espressionista e non neorealistico, che Pasolini definiva una lingua inventata, artificiale. Non è insomma la lingua in cui parlano i «ragazzi di vita», ma la loro lingua». Sul palcoscenico una coralità di voci, 18 ragazzi a comporre il vasto repertorio di personaggi, quasi un paesaggio antropologico, con continue sovrapposizioni di spregiudicatezza e pudore, violenza e bontà, brutalità e dolcezza, ma anche ironia e divertimento, per un viaggio alla ricerca del “furore” da rappresentare: la candida, cinica, disperata vitalità di una generazione intenta ad assecondare il “naturale istinto della sopravvivenza”. A guidarli in questo affresco, dove le vicende si alternano suddivise in episodi e archi temporali, è la regia di Massimo Popolizio che ci porta “dentro” le giornate dei giovani sottoproletari con uno “sguardo panoramico”. Racconti di vite con cui ci restituisce la generosità e la violenza, il comico, il tragico, il grottesco di uno sciame umano che dai palazzoni delle periferie si sposta verso il centro. Dal Fontanone a Piazza di Spagna, dal Tiburtino a Centocelle, dalle acque del fiume Tevere ai bagni del Lido di Ostia, un itinerario picaresco che diventa un “set di scene”, frammenti di storie in continuo cambiamento che ritraggono una Roma che non c’è più, dove forse si rintraccia il senso dell’estraneità dei nostri tempi. «Ragazzi di vita è un libro estremamente difficile da mettere in scena, in quanto non ha una sua storia, ma è composto da episodi intercambiabili. Ho cercato di dar vita ad uno spettacolo corale in cui gli attori vengono proiettati in situazioni che si passano da testimone a testimone, e in cui i vari pezzi sono assemblati da un furore collettivo che fa da collante allo svolgersi della storia – continua Massimo Popolizio – Questa drammaturgia non ha una base psicologica, bensì realistica. Ci sono figure molto forti che parlano con piccole battute, rimandando a un certo modo di dire e un certo modo di essere di alcuni personaggi di una determinata Roma che sarebbe assurdo replicare nello stesso modo emotivamente forte dei film di Pasolini, perché quelle facce, quei ragazzi e quelle situazioni non esistono più. Spero di riuscire a ricreare, con le interpretazioni ritmiche ed emotive degli attori, l’immagine che si ha leggendo il libro. Il palcoscenico vuoto è il contenitore di “Ragazzi di Vita”, le scene vengono indicate perché ogni pagina è un set che cambia continuamente, e tutto è demandato alla capacità attoriale di far rivivere la situazione con le parole. Così, rimane fondamentalmente un teatro di parola. E voglio raccontare attraverso le parole. Mi auguro che questo furore di risolvere il libro in scena, questa dinamica vitale di sbrigliarsi le parole e rilanciarsi le cose, possa trasformarsi in scena in qualcosa di vitale». Su tutti, a fare da tessuto connettivo tra le storie, la figura di un “narratore” che si aggira come uno “straniero” in visita a rendere possibili e visibili tutte le scene, un pensiero che diventa corpo e dice molto sul nostro presente attraverso l’interpretazione di Lino Guanciale. Una presenza sospesa che, quando cala nelle storie, racconta e ascolta le vicende dei ragazzi che non si accorgono di lui, perché vivono in un altro livello della realtà, ma quando iniziano a parlare e agire, è lui stesso ad osservarli come uno spettacolo. È questo lo sguardo panoramico, la coscienza della totalità al contrario dei ragazzi che vivono imbottigliati nella contingenza più immediata. «Da una parte ci sono i ragazzi immersi in quello che fanno, e incapaci di vedere oltre alle immediatezze che li tengono impegnati – continua Emanuele Trevi – Dall’altra c’è questo straniero che li spia, e che a differenza di loro vede tutto, parla di Roma come se la sorvolasse come un uccello rapace o un drone. Ma non si accontenta di rimanere lassù. È attratto dal basso, dove brulicano le storie. E in queste storie è sempre presente, perché è lui a farle iniziare, a colmarne le reticenze, a rimetterle in carreggiata quando i loro protagonisti sembrano dimenticarsi di quello che stavano facendo e dicendo». Ragazzi di vita riversa in scena un affresco di storie al servizio di una realtà che racconta le vicende di questi ragazzi e il loro modo di stare al mondo. Un modo libero da ogni vincolo sociale e culturale: “puro”, come l’acqua del Tevere in cui il Riccetto si tuffa per salvare una rondine; “spontaneo”, come l’incontro con la prostituta Nadia sul lido di Ostia, e “perverso”, come le imprese vissute all’estremo da Alvaro oppure dal Begalone, o ancora da Spudarato e il Caciotta, tutti abbandonati in svaghi dissennati, vagabondaggi e ruberie; “furente”, come una rissa familiare o come il patetico incontro con un omosessuale; e “tragico”, come le morti di Amerigo e Genesio, che portano via la brutalità della vita conservando la volontà di vivere dei “ragazzi” di Pasolini, la purezza in tutto il loro essere.

Sergio Buttiglieri
Si occupa di “interior design”, essendosi imbattuto in Starck, Toyo Ito, Enzo Mari, Ron Arad, David Chipperfield e altri tipacci flippati con la ridefinizione delle forme, ma, da sempre, non può fare a meno di scrivere di teatro, di quello meno allineato, più instabile e destabilizzante.