Non è certo una novità rilevare come l’India, intesa nella sua dimensione d’autentico sub-continente, smisurata realtà incastonata in un cosmo ancor più complesso quale l’Asia, rappresenti un polo d’attrazione inevitabile per l’uomo d’Occidente. Universo sfiorato e ignoto, pure dominato politicamente, mai con-tenuto, l’India è pure un repertorio inesauribile di storie, personaggi, racconti mitici dai risvolti articolati, in grado di pizzicare, con inedita efficacia, le corde della nostra fantasia.
Roberto Rustioni elegge Ramayana, poema epico risalente a due millenni or sono, quale centro d’interesse per un’esperienza teatrale dai contorni peculiari, affrontata assieme a un giovane gruppo di coraggiosi performer che si misurano con la dimensione fusionale della teatralità induista, a unire musica, recitazione, danza e azione fisica. Composta da Valmiki, l’opera narra l’epopea errante del dio Rama, il Protettore, fattosi uomo incarnato per scontrarsi contro il principio demoniaco del male e del caos.
I sette attori si presentano in modo che potremmo definire canonico, dato il contesto: raccolti in semicerchio, seduti a gambe incrociate, intonano un canto. L’effetto è suggestivo, utile a calarsi in quell’altro mondo che ci attende, in cui il senso del divino è diffuso, totalizzante, nel perseguimento di un’armonia differente dal principio dicotomico delle tre grandi religioni di ceppo abramitico (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) che informano, inevitabilmente, la nostra visione sulle cose. Prendono vita una serie di azioni (particolarmente riuscite quelle d’impronta marziale, con Jacopo Crovella in evidenza per agilità ed energia) che conducono il protagonista (Loris Fabiani) a viaggiare nel mondo nella ricerca di Sita, la sposa sottratta, affrontando un’articolatissima serie di incontri e prove, come è ovvio nell’ambito di un racconto epico. Dialogano, si battono, col solo ausilio dei corpi, dei costumi (quasi neutri i maschili, variopinti e con qualche richiamo etnico quelli delle attrici), dei pochi elementi scenici dando fondo a un lavoro che avvertiamo esser stato assai impegnativo.
Il tutto, nonostante qualche buon risultato (lodevoli le armonizzazioni vocali), rischia però di tradursi in una sorta di esotismo esteriorizzato nell’affrontare un tema e, soprattutto, un materiale tanto diverso. Una storia complessa come quella di Ramayana richiederebbe, forse, ben altro sforzo di condensazione per essere tradotta in scena, magari con scelte pure radicali nella riscrittura (saltando qualche migliaio di chilometri, ci vengono in mente certe riduzioni teatrali dai romanzi russi) e in tutto quel che ne conseguirebbe.
Si ha l’impressione che il problema possa risiedere nella posizione assunta rispetto all’oggetto, da conoscere, approcciare, affrontare, ma senza mai potersi illudere di “farlo nostro” in senso etnico-performativo: pena l’inevitabile aporia, col corollario d’una pratica teatrale magari encomiabile per abnegazione, ma votata a essere estremamente fragile (per adoprare un eufemismo) sotto il profilo dell’autenticità. Il paradosso di un oggetto agognato che, come un miraggio, s’allontana man mano che si tenti d’avvicinarlo.