Inedito e quasi mai rappresentato dopo la “prima” inglese del 1969, Silenzio (Silence) di Harold Pinter rientra facilmente nell’inventario di piccole pièces d’autore cui Marconcini, nella sua lunga e ineccepibile permanenza alla direzione artistica del Teatro di Buti, ha abituato il suo pubblico (ricordo, solo negli ultimi anni, due preziosi atti unici come Coco, di Koltès, e il cechoviano Sulla strada maestra). Opere minori, direbbe taluno, dando credito alla storiografia che scolasticamente sa incidere solo pochi titoli nel repertorio maggiore di uno scrittore. Opere immuni dalla rogna del diritto d’autore (o traduttore), direbbero altri, più maliziosi o esperti delle complicazioni che stanno dietro a un progetto creativo. Si tratta in questo caso di poche pagine, ma molto sofferte e meditate da Pinter, a quanto pare, che hanno per tema la vita che precipita nel ricordo, e che sfumando prende i toni cerei del rammarico e della solitudine.
Non senza sorpresa, lo spettacolo incomincia sulle note di una struggente ballata al pianoforte, Autumn di Paolo Nutini; si presentano uno per volta tre personaggi senza nome, due uomini e una donna (il testo li chiama Ellen, Rumsey e Bates), seduti di fronte alla platea, inquadrati da finestre aperte su una schiera di alberi scheletrici (impianto scenico e disegno luci sono opera di Riccardo Gargiulo e Valeria Foti). Benché lo sfondo sia comune, i racconti dei tre sembrano non doversi incontrare, quasi fossero deposizioni a intermittenza, e restano sordi a tutto ciò che non provenga dal letto prosciugato dei rispettivi vissuti. A turno percorrono i lembi laceri della memoria, cincischiano con il passato (che infatti riportano al tempo presente), incapaci di muoversi, di voltare pagina, come si usa dire con somma grossolanità. Ma, gradualmente, le rispettive narrazioni si scompongono – Silence è la didascalia che ritorna decine di volte nel testo – si frantumano, si mischiano a vecchie conversazioni (l’accostamento delle battute e i brevi duetti in proscenio suggeriscono un intreccio di rapporti tra i tre, imprecisato tuttavia), e infine scivolano nel definitivo silenzio: «Sono io? Sto parlando o no? Come faccio a saperlo? Come faccio a saperle queste cose? Nessuno me le ha mai dette. Ho bisogno che mi si dicano le cose», così Ellen.
Nessuno dei tre attori ha l’età che prescrive Pinter (tra i venti e i quaranta), e ciò, da una parte, azzera l’anomalia che forse l’autore desiderava nell’attribuire un’indole tanto nostalgica a persone giovani, dall’altra introduce nello spettacolo un senso di incompletezza e rimpianto che è della senilità. Tutti e tre gli interpreti, invece (austera ed elegante Giovanna Daddi, contegnoso e molto british Emanuele Carucci Viterbi, inquieto e livoroso Dario Marconcini), possiedono una rara musicalità, che insieme alla compostezza dei loro gesti fa somigliare la breve pièce a un trittico di tristi elegie autobiografiche, in cui è facile ravvisare echi della più alta poesia novecentesca.
Applausi più che meritati dalle panche dell’affollato Teatro S. Andrea di Pisa.