Sono sicuramente in molti ad associare la letteratura russa, e Dostojevskij come indiscutibile eponimo, alla sfera semantica della pesantezza (pizza, palla, mattone, malloppo, e varianti regionali). Ciò per la lunghezza dei suoi romanzi, la prolissità di certe scene (peraltro dovuta all’originaria natura di feuilleton), la difficoltà nel memorizzare nomi, cognomi e patronimici confondenti. Ma c’è una produzione dostojevskiana che può e deve sfuggire agli epiteti infamanti di cui sopra: mi riferisco ai racconti brevi, un’antologia straordinaria e consigliabile, in cui sono presenti, e condensate, tutte le sfumature psicologiche della scrittura più ampia, con i benefici non trascurabili della brevità e del ridotto numero di personaggi. Anche per questo motivo il teatro degli ultimi decenni è tornato frequentemente sui più celebri racconti dell’autore moscovita, insistendo spesso e volentieri (talora con ostentazione esegetica) sulla profondità e sull’estensione emotiva dei suoi eroi (o antieroi).
Nella stessa sera, il Teatro ERA abbina due produzioni, con logica e temerarietà: Memorie dal sottosuolo, riletto da Roberto Bacci con la muscolare prova d’attore di Cacà Carvalho (già recensito su queste colonne in occasione delle recite di febbraio) e Il sogno di un uomo ridicolo, che ha in Gabriele Lavia il suo interprete unico.
In abito scuro, l’artista raggiunge la sedia che è nel centro esatto dello spazio scenico, una striscia di palco incorniciata di nero. Da seduto, con gestualità essenziale, reciterà per circa 70 minuti le parole del suo uomo ridicolo, colui che, non avendo trovato il coraggio di uccidersi, e anzi addormentatosi dinanzi alla pistola carica, sogna un eden incorrotto, una felicità primitiva di uomini e donne ignari del peccato e della crudeltà.
Poiché persuaso che non vi sia alcuna possibilità di dire qualcosa di nuovo e di utile sopra un testo che deve essere letto e non riferito, mi fermerò soltanto su tre scelte interessanti della messinscena vista a Pontedera.
Prima, quella di anteporre alla recita un preambolo didascalico, in cui Lavia rivela il suo decennale rapporto col racconto in questione, più volte e variamente inscenato. Dopodiché divulga una breve contestualizzazione filosofica del Nichilismo che starebbe a monte dell’opera.
Seconda, la scelta di recitare con microfono, che se da una parte amplifica la potenza dell’emissione, dall’altra slabbra il suono della voce quando questa si alza, corrompendo quindi proprio i momenti di massimo effetto retorico.
Terza, la scelta della dinamica interpretativa di Lavia, la cui recitazione, tecnicamente ineccepibile, assegna una precisa connotazione al personaggio: certe ripetizioni di parole, o riecheggiamenti, certe pause, certe cadute o risalite di tono e certi intorbidamenti vocali non fanno parte del testo e sono, quindi, da considerarsi a tutti gli effetti un’analisi psico-patologica del personaggio, cui si infondono criticamente, specie nella prima parte, tratti di stolidità o squilibrio.
Settantacinque minuti di spettacolo, ben ricompensati dal pubblico del Teatro ERA, domenica 6 dicembre 2015.