A parere di chi scrive, ci sono testi che non andrebbero messi in scena. Mai, neanche sotto forma di libero adattamento, tale è il rischio di corromperne la perfezione, di infrangere con l’immagine il riflettente prisma della parola scritta. A questa categoria appartiene il romanzo breve di Dostoevskij conosciuto con il titolo Memorie dal sottosuolo.
«Non metterei le Memorie nelle mani di chi non è sufficientemente forte per reggere alla loro tensione, o sufficientemente innocente per non restarne avvelenato», così scrisse all’inizio del Novecento Dmitrij Mirskij in una Storia della letteratura russa. Probabilmente oggi siamo troppo forti (o troppo deboli?) per rimanerne avvelenati; siamo troppo immodesti per considerare la possibilità che nulla ci sia dovuto, e che la rinuncia sia l’unica scelta eticamente valida; di sicuro non siamo abbastanza sinceri per prendere sul serio la confessione di un uomo che sa di non poter far altro che odiare, poiché inadatto ai sentimenti menzogneri imposti dalla vita sociale.
L’«uomo malato e astioso» che si confessa nel libro (e nel quale ciascun lettore, con un tanto di sincerità, dovrebbe riconoscersi), dimostrando la propria inadeguatezza e meschinità dapprima filosoficamente e poi con il racconto di esperienze vissute, diventa, nel corpo e nella voce di Cacà Carvalho, una sorta di grottesco antieroe, enfatico anziché ripiegato su se stesso, instabile anziché lucidamente razionale. Abbrutito, vive in una squallida e disadorna stanzetta (un tavolaccio, un divano sfondato, una finestrella per spiare l’esterno, ciò che sta sopra: scena ben costruita, e illuminata a dovere) dove rivive perversamente le umiliazioni subite, si colpisce ripetutamente l’addome adiposo, mangia e beve con foga. Di conseguenza in nessun momento lo spettatore può sfiorare l’immedesimazione, sentirsi provocato, offeso, com’era forse nelle intenzioni registiche e sicuramente in quelle di Dostoevskij. Se la messinscena comunque funziona è grazie all’amplissima estensione vocale e gestuale di Carvalho, che passa per rochi sghignazzi, sbracature, accessi di rabbia e piagnucolii; ma proprio questa eccezionale dinamica performativa è antitetica all’arrendevole monotonia che dovrebbe avere il monologo, all’assoluta pulizia formale di quelle parole. Pertanto ripeto: ci sono testi che non andrebbero rappresentati.
Ma il teatro, lo sappiamo bene, è anche questo: manipolazione, libertinaggio, sfida impraticabile, scelta arbitraria di segni. E l’interpretazione del testo consegnata al grande attore brasiliano (ma quasi pontederese d’adozione, visto il rapporto pluridecennale che lo lega alla città e a Roberto Bacci, qui autore della regia e dello spazio scenico) è comunque una delle possibili, su cui è d’obbligo riflettere, sebbene forse non la più efficace per convincere l’esigente pubblico di ragazze e ragazzi presenti alla replica di venerdì 13 febbraio.