Stefano Accorsi ci accompagna alla (ri)scoperta dell’opera capitale di Giovanni Boccaccio: il Decameron. La cornice dell’opera è ben nota: dieci ragazzi si rifugiano in una villa fuori Firenze cercando di salvarsi dalla peste del 1348 e, per passare il tempo, si raccontano delle storie.
Nel riadattamento di Marco Baliani i giovani vivono e narrano le rispettive vicende a bordo di un furgoncino da figli dei fiori, elemento principale della scenografia di Carlo Sala. Il relitto multiforme – pieno di sportelli, finestrelle con tendine, luci e con un balcone praticabile sul tettuccio – è il mezzo per raccontarsi e raccontarci sette novelle boccaccesche. Storie d’amore che finiscono male, di truffe, di inganni e di bugie. Decamerone – Vizi, virtù, passioni ha il merito di rendere intatta tutta la carnalità dell’opera da cui prende le mosse: si percepisce intimamente la fame – del corpo e dei sensi – che muove i personaggi.
Il protagonista Accorsi, novello Panfilo, è capitano di una formazione ridotta: due ragazzi (Filostrato e Dioneo) e tre ragazze (Elissa, Pampinea e Fiammetta). Quando si accendono le luci in scena, lui è lì, pronto a declamare le prime frasi del Decameron. Basta poco – il tempo di terrorizzare la platea – e si ferma. Abbandona subito il leggio, si avvicina al proscenio e parla con gli spettatori che riempiono il Teatro Verdi di Pisa (ormai avvezzo a recite da sold out). Non userà le parole del Boccaccio – un po’ ostiche, seppur belle –, ma un linguaggio più accessibile agli orecchi nostri, ricalcato in ogni caso su quello trecentesco. Ed è proprio questa «più umana lengua», che usano tutti i personaggi, l’aspetto più notevole dello spettacolo: sarebbe interessante, in questo caso, andare a scoprire il lavoro linguistico e lessicale dietro al lavoro di drammaturgia di Maria Maglietta.
Qual è, però, il senso dell’allestimento? Non bisogna indagare troppo, visto che la ragion d’essere ce la fornisce subito, quasi come alibi, Panfilo: mentre i giovani del Trecento fuggivano dalla pestilonza del 1348, oggi il compito è rifuggire dalle molteplici pestilonze che gravano sull’uomo moderno. «Ogni giorno un novello scandalo scalza lo precedente» e il raccontare dovrebbe servire come antidoto alla corruzione, alle ruberie e alla crisi che appestano il nostro mondo. Per il debutto fiorentino, in questo senso, lo spettacolo ha avuto terreno fertile, coincidendo – ovviamente per caso – con l’affiorare delle vicende giornalisticamente note come “Mafia capitale”.
Solo questo, dunque? Intrattenere? Distrarre dalle preoccupazioni? Se questa è la funzione, lo spettacolo è riuscito: salvo alcuni momenti più lenti – le quasi due ore sono forse eccessive – Panfilo e i suoi compari ci divertono e ci intrigano. A noi, però, sembra triste porsi un obiettivo tanto semplice, per giunta scomodando Boccaccio. Il Decameron non ha bisogno di essere “rispolverato”: chiunque a scuola abbia letto almeno una novella sa quanto possa essere, tutt’oggi, divertente.
Il teatro – come ogni altra forma d’arte – dovrebbe mirare più in alto: non si può pretendere che il pubblico esca di casa, paghi un biglietto, e stia due ore in una sala buia soltanto per intrattenersi. Non nel 2015, quando l’offerta di attrazioni per il tempo libero è così ricca: serve qualcosa in più per chiedere a una persona di passare una domenica pomeriggio «ne lo mutevole loco de lo teatral sentire», quando potrebbe andare a fare shopping, bere qualcosa in un locale, leggere un libro o, similmente, starsene sul divano a intrattenersi davanti alla televisione.