Il rocambolesco rapimento corsaro e la deportazione nell’harem di Algeri di un’intrigante dama milanese, Antonietta Frappoli, capace di rientrare in patria seducendo il Bey Mustafà-ibn-Ibrahim, fu un clamoroso fatto di cronaca d’inizio Ottocento che ispirò prima Luigi Mosca, poi Gioacchino Rossini, per musicare quella che divenne L’Italiana in Algeri (1813), ben presto una delle perle del genere buffo, con il blasone di Stendhal che la definì «la perfezione dell’opera buffa». Il Teatro dell’Opera di Firenze chiude la stagione lirica con un suo allestimento che non è certo una novità, per la regia di Joan Font, leader della compagnia catalana Els Comediants, le scene e i costumi di Joan Guillén: in prima a Madrid nel 2009, approdato a Firenze l’anno successivo, poi rappresentato anche in Francia e in America.
Un frullato di sgargiante cromatismo, per uno schiumoso cocktail vivace, leggero, invitante alla vista nei suoi colori accesi e caldi. Consigliato per palati dolci, inclini al “fiabesco”. La ricetta del successo di un allestimento collaudato che s’affida, da una parte, alle suggestioni visive da Mille e una Notte, con un pizzico di kitsch, dall’altra alla solidità del cast. Protagonisti e comprimari tutti in divisa da arlecchino “centrifugato”: turbanti megagalattici multicolore, pantaloni alla turca voluminosi e variopinti. Non da meno il sottobosco del serraglio del Bey: dai seminudi eunuchi, queruli quanto grotteschi negli intermezzi comici, allo straordinario mimo-tigre di Alfonso Cayetano, fino alle due donne guardie del corpo, valchirie metropolitane hipster in vistosi occhiali da sole. C’è anche il pupazzo gigante del Kaimakan-Taddeo, che invade la scena con il trionfalismo di un carro carnevalesco viareggino.
Vivace, assurdo, L’Italiana in Algeri è la perla del nonsense in musica con due cavalli di battaglia drammaturgici: gli inserti corali del finale del primo atto – l’apoteosi dell’onomatopeico – e la gag grottesca del gabbato Mustafà-Pappataci, che occupa una buona porzione del secondo atto. Solidissimo il cast, a partire dal direttore d’orchestra Bruno Campanella, una garanzia, annoverato fra i massimi specialisti rossiniani degli ultimi anni, dirige un’ottima Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, convincente quanto il coro, tutto al maschile, diretto da Lorenzo Fratini.
La prima donna Isabella è Marianna Pizzolato, acclamatissima nel repertorio rossiniano, scelta nel 2010 dalla Naxos Records per le ultime incisioni del repertorio del compositore pesarese. Visto l’allestimento nel secondo cast, gli equilibri restano sostanzialmente invariati. La seconda Isabella di Victoria Yarovaya s’avvicina alla Pizzolato, sia per l’immagine dal fascino mediterraneo, sia per la sua timbrica da mezzo soprano, che distende con omogeneità la voce lungo tutta la sua estensione con notevole gradevolezza. Comico e brillante l’unico Haly dell’allestimento, interpretato con verve da Sergio Vitale. Il Mustafà di Marko Mimica è ugualmente convincente, anche nell’attitudine recitativa della caricatura del maschio che crede di poter tutto e invece fa la figura del babbeo. Ottimo anche il Taddeo di Biagio Pizzuti e la coppia del soprano agile e squillante, sufficientemente penetrante da emergere nei concertati, della bella Damiana Mizzi nei panni di Elvira e della Zulma di Lamia Beuque, anch’essa bellissima sulla scena.