È sempre un rischio azzardare analisi a ridosso d’una visione teatrale, tanto più se si tratta di prima assoluta; al contempo, la riflessione a corpo caldo rappresenta e una tentazione e un tentativo (di contributo) irrinunciabile per chi si presta all’esercizio critico. Il secondo spettacolo del nutrito cartellone del festival I Teatri del Sacro vede in scena il Teatro delle Moire, ardimentosa compagnia lombarda, che porta uno spettacolo dal titolo peculiare, Sante di scena.
Il palco è sgombro, dominato dal nero di quinte e fondali. La luce, ieratica, lambisce la carne copiosa d’un robusto corpo femminile (Alessandra De Santis), offerto di schiena, al centro. S’assiste a una vestizione, lenta, cadenzata, su un tappeto musicale che, via via, sarà architrave portante dell’allestimento. Tre suore, fasciate da tonache nere, si coprono il capo col bianco soggolo per poi apporvi il caretteristico velo scuro. Tipi fisici differenti, ognuno, a proprio modo, improbabile: la corpacciuta matrona con far di badessa, la sorella mascolina (interpretata, infatti, da Attilio Nicoli Cristiani), l’ultima esile e spiritata (Cinzia Delorenzis). Non rispondono a criteri intepretativi univoci, tutt’altro: inizia così un’articolata giostra di slittamenti, quadri più o meno estesi, per uno spettacolo che vive d’illuminazioni e figure sovrapposte.
Lo spettro emotivo è pressoché completo: dall’intensità più dolente alle strizzate d’occhio sbarazzine, quando le consorelle paiono posare, con sguaiata complicità, per scatti fotografici in serie. Si gioca perlopiù sulla matrice ironica, grazie a una De Santis particolarmente versatile, non disdegnando passaggi spiazzanti in chiave musicale. Non si parla quasi mai, infatti: si canta, piuttosto. E, dunque, alla coralità raccolta d’un lamento quasi sussurrato segue, per contrasto, l’esecuzione in chiave folk (con Delorenzis a imbracciare chitarra e inforcare occhiali scuri, tra Bob Dylan e Sixto Rodriguez) d’una canzone dal testo troppo articolato per esser vero, sino al colmo di una sequenza dance o di quella con suore cow-boy a spararsi l’una con l’altra come in un film western.
Il legame col sacro è indubbio, forse sin troppo denunciato; sfugge, onestamente, un filo conduttore convincente, a tenere assieme immagini tanto eterogenee. Non si tratta, infatti, di giudicare un percorso scientemente paratattico, giocato su apposizioni/contrapposizioni tonale, quanto il trovarvi chiavi accessibili, risonanti. Le note di regia vengono in soccorso: «abbiamo avvicinato tante vite, biografie, parole scritte dalle sante», sommando riferimenti filmici (Jerzy Kawalerowicz, Ken Russell), artistici (Niccolò dell’Arca, Giovanni Pisano) e musicali. Non rimediano, però, all’impressione d’un quadro che fatica a trovare una composizione compiuta. Di tanto in tanto, il pensiero va a certe follie di Paolo Poli, là dove, però, il professorino che canta infonde tutt’altra solidità al costrutto complessivo, pur nel perseguire una poetica fortemente frammentaria. Il gioco di riconoscimenti può esser pure divertente (ma ci sia concesso porre anche qualche dubbio in merito), ma, per funzionare a dovere, dovrebbe lavorare per aperture, lasciandosi leggere in qualche modo (grazie alla fluidità ritmica o alla riconoscibilità dei riferimenti). Chissà che le repliche non possano giovare a tal proposito.
Applausi sulla fiducia “da prima”, dunque, al Real Collegio di Lucca.