Non è la prima volta che Oscar De Summa si cimenta con Shakespeare e Riccardo III, benché la presente sia, per chi scrive, la prima occasione d’assistere a un lavoro del pugliese. A dieci anni fa risale un solitarissimo Riccardo sorto a Castiglioncello; poi fu la volta di Amleto a pranzo e cena (ne leggemmo benissimo) e del recente Un Otello altro. Allestimenti palesemente dal e non del Bardo, rivendicando la comprensibile necessità d’indagarne lo spirito, prescindendo dai testi, al di là della loro pregnanza o pregevolezza. Carmelo Bene (non da solo) ce l’ha insegnato: il teatro è moltitudine di segni e la parola non ne è che, probabilmente, il più equivoco e pesante. Ben vengano riletture e tradimenti, i cui meriti han da commisurarsi non al rispetto d’un canone, bensì a un’articolata valutazione circa efficacia, senso e urgenza, vaglio cui dovrebbe provvedere una critica che ambisca al ricupero d’una vera funzione nel sistema scenico. Discorso lungo: nel nostro minimo, ci proviamo.
Sin dall’iniziale presentarsi dei cinque attori (scena aperta: antro nero, pedana con trono e sistema di drappi dall’alto), s’avverte l’intenzione di rovistar il testo individuandone gli elementi risuonanti nel contemporaneo. Con affabile quanto artefatta complicità, è illustrato l’argomento, l’ascesa e repentina caduta del deforme plantageneto, assurto poi a modello di perversa e inarrestabile ambizione. Manifesto lo sciente divagar di registri, tra commediaccia e tragedia, mescidanza mai estranea alla polifonica testualità scespiriana. Le regine del titolo sono elemento straniante, la spaccatura che De Summa applica al modello, spazzando via il nugolo di caratteri virili che satura la vicenda (in rapporto di 36 a 5, ignorando le scene massive). Anna, Elisabetta e Margherita, presenze irrinunciabili, foss’anche nella funzione d’inconsapevoli e nolenti arnesi della cinica scaltrezza del protagonista. Focalizzarsi su di esse è opzione allettante, proposizione d’una rilettura generale della fonte a illuminarne snodi altri rispetto a una tradizione che, sovente, annega la vivida pulsazione del classico nel pelago d’interpretazioni sedimentate e fiacche.
Isabella Carloni, Silvia Gallerano e Marina Occhionero, sovrane terribili: slittano di scena in scena surfando tra i rimasugli del lavoro originale, inteso come substrato, e la forte visione che il capocomico imprime a un allestimento sospeso tra nuances dark, impronte rock e farsa ostentata, a “rompere” tutto quel che di fatalmente pregresso ammanta “il” Riccardo III. La Lady Anna di Occhionero, stentorea e amara, venata di humour e incertezze, è, con la Banshee di Carloni, la nota più interessante, il colpo meglio assestato (sarà pure la freschezza dovuta alla posizione nel testo) d’un lavoro apparso ancora assai in fieri, come fosse un marchingegno cui ancora si debban stringere tutte le viti.
Sovrabbondanza di soluzioni sceniche: dal Duca di Buckingham del Marco Manfredi dj post-punk al contrastato dosaggio illuminotecnico, al progressivo rendere la scena sempre più simile a un ring pugilistico, trovata non rivoluzionaria, ma d’innegabile pregnanza. Parimenti, s’avvertono scollature, forse dovute alla crudezza endemica del costrutto (siamo alla seconda replica), riverberate in certi vezzi autoreferenziali (peccato originale comune a un certo tipo di panorama) che finiscono per neutralizzare sensibilmente parte del buono d’un dispositivo scenico ambizioso, che sembra aspirare, per adesso senza centrare il bersaglio, al rango di capolavoro. Da rivedere, nel bene e nel male.