L’ingresso nella sala Titta Ruffo del Teatro Verdi di Pisa crea un certo disorientamento: pare troppo angusta per la messa in scena di un’opera, per ospitare orchestra e pubblico, il quale, visto l’annunciato tutto esaurito, fatica a trovare posto. Lo spazio centrale è occupato da una struttura lignea a forma di croce su cui si muoveranno i personaggi, mentre quelli fuori scena resteranno seduti o sdraiati alle sue estremità, intenti a smazzare carte da gioco. L’orchestra utilizza strumenti d’epoca barocca che, fin da subito, paiono poco amalgamati, dalla sonorità incerta.
La scelta dell’opera è audace: Il trionfo dell’onore ovvero il dissoluto pentito di Alessandro Scarlatti, per la regia di Mario Setti. Unica opera comica dell’autore, che tenta di darle un più ampio respiro preferendo l’italiano al dialetto napoletano solitamente usato all’epoca (siamo nel Settecento) per questo genere. Rappresentata la prima volta a Napoli al Teatro dei Fiorentini il 26 novembre 1718, la vicenda narra di quattro possibili coppie in cui gli uomini, tra cui “il giovane dissoluto” Riccardo, corteggiano la donna d’altri. Il finale, secondo la prassi del tempo, ripristina le coppie “corrette” grazie al pentimento di Riccardo, lasciando, comunque, dubbi e perplessità circa l’autenticità e la durevolezza dei sentimenti. Riflessioni analoghe, poi riprese anche dall’inarrivabile Così fan tutte mozartiano, in cui all’apparente superficialità della vicenda si contrappongono le caratterizzazioni psicologiche dei personaggi nel contesto culturale di un’epoca, compreso lo stesso dissoluto che, altrove, non arriva al pentimento (fino a essere inghiottito dalle fiamme, nel Don Giovanni).
La rappresentazione pisana è ridotta a circa 140 minuti: notevoli tagli ai recitativi per un risultato scorrevole e assai fruibile. La scenografia è in parte integrata dalla serie di proiezioni realizzate da Simone Cinelli: non avevano alcun nesso con l’ambientazione della vicenda, anzi, con l’indubbio merito di produrre un effetto di doppia fruizione per lo spettatore. La vera struttura comica si evidenzia nell’assegnazione delle parti: Riccardo interpretato da una donna (Maria Costanza Nocentini) e i due personaggi femminili, Cornelia e Rosina, interpretati da uomini (Francesco Ghelardini e Floriano D’Auria), in origine due contraltisti. I personaggi-maschere, soprattutto le due fanciulle, nel loro apparire caricature rispetto agli originali, hanno sortito nel pubblico una sorta di compiaciuto spaesamento.
La performance canora ha riprodotto con fedeltà lo stile e le intenzioni del compositore, soprattutto in occasione dei duetti e dei quartetti, nel cui intreccio di voci risalta la bellezza della polifonia barocca. Assolutamente da dimenticare, piuttosto, le imprecisioni vocali nel registro acuto di Kentaro Kitaya (Erminio), colui che sfida Riccardo e lo induce a un atto d’onore. Coloratissimi ed estrosi, i costumi realizzati dalla maison Enrico Coveri, compensano l’assenza di oggetti scenici e accentuano il contrasto tra vecchio e nuovo.
L’importanza di questa esperienza, tra dubbi e perplessità, sta soprattutto nel recupero di un piccolo e significativo gioiello della produzione musicale italiana, ormai quasi dimenticato, di cui il pubblico ha potuto godere e che, grazie all’audacia del regista, è stato manipolato e modernizzato con successo.