Calcio e teatro, mondi meno remoti l’uno dall’altro di quanto si pensi, per la grossolana dicotomia che riserva il pallone alla massa becera e le arti agli spettatori culturalmente elevati. E se è vero che la garanzia dell’ordine pubblico è drammatica peculiarità sportiva (concentrare le più disparate e confuse frustrazioni sociali in luoghi controllabili ha i suoi vantaggi), è innegabile come vari artisti abbiano a più riprese gettato lo sguardo verso il verde rettangolo pallonaro. Carmelo Bene tifava Roma e adorava, in termini estetico-estatici, Maradona; Antonio Rezza ama Cruijff e cita più volte Mazzola (l’inesistente Beppe) nel delirio solipsistico di Io; e che dire di Italia-Brasile 3 a 2, cunto siculo che lanciò Davide Enia sulla ribalta nazionale (la sua compagnia si chiama tuttora Santo Rocco e Garrincha), dello struggente L’Atletico Ghiacciaia (strapaesano monologo di Alessandro Benvenuti) e delle infinite suggestioni letterarie (Soriano, Galeano, Hornby, ma pure Saba e Pasolini) oramai moneta corrente non solo per gli appassionati?
Giungiamo dunque preparati ad Artè, struttura che mai smetterà di risultarci aliena con quel soffitto vetrato che, oltre a costituire un problema per l’acustica, nei giorni di quasi estate lascia filtrare una sensibile e irrichiesta illuminazione serotina. Mi voleva la Juve è il monologo che Gianfelice Facchetti, figlio della celebre bandiera interista, cuce indosso a Giuseppe Scordio, traslandone sul palco il vissuto. Storia da leva calcistica degregoriana, ché ogni bar vanta almeno un provinato (curioso che il termine sia comune a sport e spettacolo) da un grande club, una promessa mai mantenuta, una disillusione da raccontare.
Scena abitata da simboli più che espliciti: il poster di Boninsegna a sinistra, un angolo quasi domestico di rosei pacchi di giornale, l’ampio telo al centro per riprodurre la classica lavagna tattica, un gancio pendente dall’alto, a destra. Giuseppe Nove racconta la propria storia, incastonata in quegli anni Settanta tuttora prisma enigmatico, insoluto, per il nostro paese: non soltanto Gioia e rivoluzione, Radio Alice, cantautori e speranze (ancora) da annegar nel sangue, ma vita “vera” di abbandoni e precarietà, spesa in quei grigi quartieri popolari, detti coree, assurti poi a diffuso modello sub-urbano. E ideali per diffondere quel cancro in polvere che fu l’eroina, un’ecatombe durata oltre vent’anni, sino all’affermazione d’altre sostanze, solo in apparenza meno pericolose.
Scordio riempie lo spazio: ha voce e presenza centrate, crede in quel che fa, tocca pure bene la palla, esibendo un controllo che prova la natura autobiografica del lavoro. Che cela, ma neanche troppo, il dolore a origine del tutto: per l’abbandono paterno e la morte (causa droga) del fratello. Frantumi e frammenti d’un riscatto immaginato a suon di gol, foss’anche vestendo le strisce “sbagliate” per un ragazzo di fede interista; un riscatto trovato, quasi per caso, in scena, grazie a Giulio Bosetti, anch’egli nerazzurro, ma atalantino. Testo e regia sembrano, però, funger da autentica zavorra, depotenziando le pur apprezzabili doti attoriche: è tutto così chiaro, così buono, con quel “cielo” ricorrente ad accogliere i morti in un manicheismo da oratorio (“la droga fa male”… solo quella?) che, per quanto fedele a certe realtà calcistiche, ci pare mal sposarsi col teatro come spazio di cerca, sfumature, dubbio e sorpresa. E fa sorridere la naïveté disarmante delle scelte musicali, al di là della coerenza storica, poiché né Led Zeppelin né Vasco Rossi (!) possano considerarsi artisti allergici alle sostanze psicotrope.
Nondimeno, sono convinti gli applausi dello sparuto pubblico presente.