È una voce di vecchio, lontana, disturbata, ad aprire la porte del Bar. Una squallida bettola intrisa di fumo mefitico, un buco qualsiasi, dimenticato da dio, in una qualche periferia di una qualunque metropoli.
Un lungo bancone scuro, a ferro di cavallo, piagato, contorto e ritorto da un lato, qualche sgabello appoggiato contro, un tavolo a destra, un orinatoio rugginoso a sinistra. Pochi clienti, gli stessi di sempre.
Questo è il bar di Mirka, barista ucraina incattivita dalla vita, la quale affitta il suo utero a coppie di italiani per soldi. Una donna, cinque uomini: uno scrittore alcolizzato costretto dal proprio editore a scrivere un impossibile libro sulla Grande Guerra, un ladro bipolare che ruba in casa di gente appena morta, un imprenditore capo di una ditta di pompe funebri per animali di piccola taglia, un buddista vessato dalla moglie, melaniano e in lotta per la liberazione del Tibet. Reale proprietario del bar, il Vecchio (Alessandro Haber), anziano nostalgico fascista che, domato da un tumore alla prostata, vive confinato nell’appartamento sopra il locale e comunica solo attraverso una radio.
Creature notturne, tormentate da una vita che sembra non essere in grado di sorridere, patetici nella loro miseria travestita da convinzione. Le luci del bar si accendono nel momento del parto della donna. Tre uomini ripiegati su di lei, uno, indifferente al panico generale, seduto al tavolo. L’azione si interrompe e il nastro si riavvolge. Seguendo l’ordine di un’invisibile didascalia che recita “qualche tempo prima…”, lo spettatore prende gradualmente coscienza della situazione e delle dinamiche malsane che legano i clienti che entrano ed escono dal bar fino al momento delle sofferte doglie.
Cattivi, cattivissimi e bastardi, i personaggi di Animali da Bar (Beatrice Schiros, Massimiliano Setti, Gabriele Di Luca, Pier Luigi Pasino, Paolo Li Volsi) portano avanti la loro famelica ricerca per tentare di scoprirsi differenti finendo irrimediabilmente per ritrovarsi gli stessi di sempre; sognano senza davvero credere, aspirano senza realmente aver la forza da uscire da una quotidianità che li pretende patetici. Al termine ognuno sarà costretto a dover vivere la propria vita, cercando di andare comunque avanti, arrancando verso un futuro che non vuole promettere niente.
Lo spettacolo trova la sua forza nel ritmo del testo scritto da Gabriele Di Luca che alterna all’irriverente e al politicamente scorretto le tenerezze degli innamorati, le incertezze dei deboli, le sofferenze degli abbandonati.
Il tempo è scandito in sezioni autoconclusive che terminano con l’intervento di Mirka o dello scrittore, Swarovski, carismatico “capo branco”, cinico manipolatore, al quale è destinato anche il compito di raccontare agli spettatori come va a concludersi la vita di ognuno dei suoi compagni.
Solo nel finale lo spettacolo tende a perdere un po’ del suo carattere, per via del tono quasi moralista che attenua il caustico e lo scomodo. Quasi viene voglia di sentire di nuovo l’ennesima cattiveria del Vecchio o di Mirka, ma ormai si è fatto tardi e il bar ha chiuso.