C’era una volta il mattatore. Un grande attore, riconosciuto dal pubblico, che attirava col proprio nome gli spettatori a teatro. Gli allestimenti erano incentrati e allestiti sulla sua presenza, talvolta mettendo in scena frammenti di opere disparate. Storiche, in questo senso, certe performance di Vittorio Gassman. Ma si potrebbero citare quelle di Gigi Proietti, Giorgio Albertazzi, e perfino Carmelo Bene.
Una nuova formula mattatoriale si presenta, ormai da qualche anno, sui palcoscenici italiani (e non solo): interpreti resi celebri da cinema o tv, “messi in scena” a riempire le platee di un teatro sempre più commercializzato. Un vero specchio dei tempi, dove il valore delle cose è misurato principalmente in termini economici, dimenticando (volutamente?) l’ipocrisia tipica del marketing, anche in campo culturale. E pure Toni Servillo sembra essere caduto in questo infernale meccanismo: da solo in scena, legge testi, classici e contemporanei, relativi alla natia Napoli, in uno spettacolo di per sé assai facile da raccontare: novanta minuti trascorsi passando dal paradiso all’inferno, in compagnia dei più importanti scrittori napoletani; Salvatore Di Giacomo, Raffaele Viviani, Totò, Eduardo De Filippo, Mimmo Borrelli ed Enzo Moscato, le loro parole, le loro lingue, unite dal filo rosso rappresentato dal legame con l’aldilà, autentico topos della cultura popolare partenopea.
Servillo dà grande prova delle proprie capacità affabulatorie. Magistrale il controllo sulla lingua, passando dalla filastrocca al ritmo incalzante, dove il senso è dato più dal suono, dal timbro, dai tipici glissati, che dalla stretta comprensione delle parole. Per un pubblico toscano, come quello del Teatro del Giglio, l’attenzione si sposta, appunto, dal significato alla fascinazione sonora del napoletano, inteso sia come lingua sia come personaggio scenico. Non importa se non si comprende tutto: si è conquistati dall’esotismo fonetico di una lingua tanto musicale e dolce quanto aspra; dal personaggio famoso, capace di catturare l’attenzione del pubblico, peraltro confermando il luogo comune circa le naturali capacità sceniche dei partenopei. Lo stesso attore strappa applausi dicendo che a Napoli “abbiamo tanti problemi ma abbiamo anche una caterva di cose bellissime“, come i testi in lettura.
La prova d’attore è certamente riuscita: non ne dubitavamo, conoscendo le origini e il percorso dell’artista, partito dal Teatro Studio di Caserta e dall’incontro con Leo de Bernardinis, alimentatosi in quel contesto scenico dove passione e necessità del fare teatro precedono il valore economico delle proprie scelte. Nel teatro “di ricerca”, dove girano meno soldi, gli spettacoli realizzati da un solo attore sono molti: più facili da vendere, da portare in giro, e, anche se rischiano di creare “fenomeni”, spesso il senso di quanto viene messo in scena va oltre il nome in cartellone.
Nel caso di Toni Servillo legge Napoli, il senso dell’operazione è invece già esplicito nel titolo. La necessità che comunica è quella di portare a teatro un pubblico che vuole vedere, dal vivo, il fantasma di celluloide conosciuto al cinema. Ed è singolare che a Lucca, nello stesso pomeriggio, si sia tenuta anche la proiezione del film La grande bellezza, come a sottolineare che, sì, era proprio lui, “quel Servillo lì”, che poi si sarebbe esibito in teatro. E anche se abbiamo passato una bella serata, da un artista che si è conquistato fama e spazio partendo davvero dalla gavetta e dalla sperimentazione, ci si sarebbe aspettato qualcosa di un po’ più rischioso rispetto a una buona dimostrazione di napoletanità, tutto sommato bella quanto innocua. Ma, forse, questo è il prezzo che richiede il mercato dell’essere famosi.