Vi succede mai di vedere uno spettacolo ed esserne inizialmente sopraffatti per poi, il giorno dopo, essere di tutt’altro avviso, quando non, addirittura, dell’opinione opposta? Per chi scrive capita, eccome se capita, ed è successo proprio in occasione del bello spettacolo Pavla nad prepadom in scena al Fabbricone di Prato.
Un’interessante scenografia emerge dal buio, colorandosi gradualmente di luci fredde; appaiono poi, riprodotti, dei disegni animati: sono una cinepresa e un ipotetico pubblico che assiste alla proiezione dei titoli di testa (gli stessi dello spettacolo che andremo a vedere). Dal soffitto della struttura (una piattaforma, un fondale e una copertura con incastonati manopole, sporgenze e cubi) si calano i performer che, con un’impressionante agilità, vanno a comporre nell’arco di 4 minuti una coreografia incalzante. Al termine della sequenza ci rendiamo conto che si tratta di un teaser di tutto quello che si evolve sulla scena.
Ciò che affascina è lo sviluppo pluridimensionale che lo spettacolo assume: gli artisti si inerpicano in verticale, si adagiano sui cubi, si issano in pose plastiche sul soffitto per crollare, infine, a peso morto, sostenuti da tiranti. Tramite salti, sia metaforici che reali, si ripercorre la vita della scalatrice slovena Pavla Jesih che, in seguito a un incidente in montagna, dovette abbandonare la sua passione, dedicandosi così al cinema. Tra le persecuzioni della dittatura comunista, che accusa la protagonista di aver trasmesso pellicole fornitegli da case di distribuzione nazifasciste, e scene di memorabili scalate sugli impervi monti sloveni, emergono le tre personalità di Pavla, interpretate rispettivamente da Katarina Stegnar (l’agile e scaltra scalatrice), Barbara Ribnikar (l’imprenditrice cinematografica in un’elegante veste nera svolazzante) e Maruša Oblak (la donna nell’ultima parte della sua vita, riflessiva e stanca, privata di tutti i suoi interessi); le tre donne, scambiandosi una sigaretta, palesano le proprie sensazioni, timori e preoccupazioni.
L’intera performance è in sloveno, con sopratitoli in italiano, che dopo le iniziali nozioni biografiche possono essere tralasciati per godersi a pieno i movimenti e i tableaux vivants.
Linee tracciate manualmente contornano un cubo a simboleggiare un tavolo, un ragno stilizzato si cala dal soffitto per poi risalire velocemente la cima (la metafora richiama l’agilità della scalatrice), uccelli poco aggraziati (a primo acchito sembrano galline o piccioni) svolazzano nello spazio (a sottolineare la sua libertà prima dell’incidente, in seguito al quale si sente come un volatile in gabbia): sono alcuni dei fumetti proiettati e mappati sulla scenografia.
La musica di Tibor Mihelic Syed e Marko Brdnik ricorda per lo stile e per l’uso della voce (come se fosse strumento musicale) il gruppo islandese Sigur Ros, e crea suggestivi e romantici sottofondi.
Nel complesso, una bella e peculiare performance, benché dopo l’iniziale entusiasmo ci rendiamo conto che tutta la magia si è svelata, o per meglio dire bruciata, nei primi minuti, facendo del rimanente una distesa ripetizione.
Il nostro sguardo però non può che essere piacevolmente colpito da un’ammirevole prova fisica e attoriale che molti degli artisti nostrani possono solo sognare.